Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Stampa | Notifica email    
Autore

{Compendi vari}

Ultimo Aggiornamento: 19/02/2012 22:52
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
22/12/2010 12:17

La Tavola Smeraldina e la Tavola di Rubino di Ermete Trismegisto



{Note Off}
Autore: Ermete Trismegisto (?) - Introduzione e opera a cura di sir Nataniel
Revisionato e corretto il: 10.11.08 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di media grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Il liber presenta un'antichissima trascrizione dal latino delle tavole di smeraldo e di rubino dell'emblematica e leggendaria figura di Ermete Trismegisto. L'introduzione storica è a cura del sottoscritto.
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx



Introduzione
a cura di Sir Nataniel

La Tabula smaragdina -e la sua corrispondente opposta, la Tavola di Rubino- è uno dei documenti alchimistici più antichi e di più persistente durata. Si presume, leggendariamente, che nella sua stesura originale sia stata rinvenuta in una caverna incisa su di una lastra di smeraldo tenuta fra le mani della salma di Ermete Trismegisto, il tre-volte-grande Ermete. In una versione latina, il traduttore ci dice che le preziose frasi di Ermete furono scoperte da Galienus Alfachim, o il Medico, su di una piastra di smeraldo in una caverna, e questa tavola era tenuta fra le mani diel cadavere di Ermete Trismegisto. Il lettore viene esortato a custodire il testo con ogni segretezza, comunicandolo solo a uomini di provata buona volontà. Viene citata l'affermazione di Galienus: «Quando penetrai nella caverna, ricevetti dalle mani di Ermete la Tavola di Zaradi, su cui trovai iscritte queste parole». Il nome Galienus è stato preso per Galeno, ma sembra una corruzione di Balinas (Apollonio di Tiana). Il termine smeraldo o smeraldino era attribuito dagli Egiziani e dai Greci a quasi ogni sostanza verde, ovvero anche al granito verde e forse al diaspro verde. Il termine zaradi sembra inoltre una variante di una parola persiana indicante una camera sotterranea. Altre versioni della leggenda dichiaravano che la lastra smeraldina con i suoi precetti incisi in caratteri fenici era stata trovata nella Tomba di Ermete da Alessandro il Grande; oppure che una donna di nome Zara, talvolta identificata con Sara, moglie di Abramo, prese la tavola dalle mani di Ermete defunto in una caverna vicino a Hebron qualche tempo dopo il Diluvio. Avvolta com'è dalle nebbie della leggenda l'origine della Tabula, non è possibile stabilirne con certezza storica l'autore.


Tabula Smaragdina
o
Tavola di Smeraldo
di Ermete Trismegisto
(Hermes Trismegistos)


I E’ vero senza menzogna, è certo e verissimo che ciò che è in basso è simile a ciò che è in alto; e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per compiere i miracoli della Cosa Una.

II E come tutte le cose vennero dell’Uno per mediazione dell’Uno così tutte le cose nacquero dalla Cosa Una per adattazione.

III Suo Padre è il Sole, sua Madre è la Luna; la porta il Vento nel ventre suo e la Terra è la sua nutrice.

IV Questo è il padre del Telesma di tutto il mondo.

V La sua forza è integra se si riversa sulla Terra.

VI Separerai Terra da Fuoco, il sottile dal denso, delicatamente, con grande cura.

VII Ascende dalla Terra al Cielo e ridiscende in Terra raccogliendo la forza delle cose superiori e delle inferiori.

VIII Tu avrai così la gloria di tutto il mondo e fuggirà da te ogni oscurità.

IX Qui consiste la forza forte di ogni fortezza: perché vincerà quel che è sottile e penetrerà tutto quello che è solido.

X Così fu creato il Mondo. Da ciò deriveranno adattazioni mirabili il cui segreto sta tutto qui.

XI Pertanto fui chiamato Ermete Trismegisto, possessore delle tre parti della filosofia di tutto il mondo.

XII Ciò che ti dissi dell’operazione del Sole è completo


--§@§--



Verum sine mendacio, certum et verissimum.
Quod est inferius est sicut quod est superius, et quod est superius est sicut quod est inferius ad perpetranda miracola Rei Unius. Et sicut omnes res fuerunt Uno, meditatione Unius: sic omnes res natae fuerunt ab hac Una re adaptatione. Pater eius est Sol, mater eius Luna. Portavit illud ventus in ventre suo. Nutrix eius terra est. Pater omnis telesmi totius mundi est hic. Vis eius integra est, si versa fuerit in terram. Separabis terram ab igne, subtile a spisso, suaviter cum magno ingenio. Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum. Sic habes gloriam totius mundi. Ideo fugiet a te omnis obscuritas. Hic est totius fortitudinis fortitudo fortis, quia vincet omnem rem subtilem; omnemque solidam penetrabit: SIC MUNDUS CREATUS EST. Hinc erunt adaptationes mirabiles, quarum modus hic est. Itaque vocatus sum Hermes Trismegistus, habens tres partes philosophiae totius mundi. Completum est quod dixi de operatione solis.



--§@§--




Tavola di Rubino
di Ermete Trismegisto
(Hermes Trismegistos)




I - Non e' certissimo ne' verissimo quanto la mente della creatura concepisce:
Incomprensibile Vero e' il Creatore. Cio' che e' in alto
non e' come cio' che e'in basso. All'alto la magnificenza dell'unita', al basso
la miseria della molteplicita', che par tutto ed e' nulla

II - E poiche' tutte le cose partecipano della molteplicita'esse tanto meno sono verita',
vita, bene, quanto piu' si distanziano dall'Uno.

III - Ecco il numero, il molteplice, l'involucro, il cadavere dell'uno:
suo padre (fu) il desiderio della terra, sua madre l'ignoranza.
Il sole dissolse la carogna e il vento disperse il fetore del frutto dei due.

IV - Questo desiderio ha creato gli eroi, i demoni e gli dei; questa ignoranza
si e' riversata su tutto il possibile, confondendo ogni tradizione ed il Tre.

V - Ed ha regnato nel Male, nel sangue, fuori dalla Rosa nell'abominio dei quattro.

VI - Unirai l'uno col due, l'uno con i molti, il soffio col Se',
delicatamente con grande cura, fino al nove saltando il cinque.

VII - Poiche' discende dal cielo alla terra e risale al cielo disperdendo
le forze inferiori nella forza superiore, indefinibile, che si compie nel sei

VIII - Allora, figlio del desiderio, sarai come gli dei, i demoni e gli eroi
padrone dell'oscurita' e della luce dei sette

IX - (In cio') consiste la sapienza, sapiente di ogni sapienza;
sarai tanto grande da essere indefinito e indefinibile.
Vincera' che (pesa) di piu' sulla bilancia dell'otto.

X - Cosi' il mondo (invento') i suoi ideali. si puo' adattare questo arcano a qualunque (cosa):
serpeggiando, vibra come corda di cetra e si fa numero caduco. Anche ogni causa seconda.

XI - Pertanto io fui chiamato annunciatore di Thot, piu' schiavo della causa della ragione,
che amico della ragione stessa.

XII - (Quanto detto) delle umili operazioni di Urano e di Saturno
serva di prima guida ai desiderosi: Osiride e' un dio nero.

[Modificato da shadow.20 22/12/2010 12:48]



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
22/12/2010 12:52

Leggi del Regno


Nota OFF: Questa è una copia l'originale si può trovare presso il palazzo del Governatore e palazzo Reale.



Art. 1

1.1) La diffusione tramite qualsiasi mezzo, di informazioni riguardanti i rapporti privati tra Dame e Messeri, volte al solo scopo di vanto o derisione, e lesive dell’onore e della reputazione delle persone coinvolte non è ammessa. Si stabilisce che atti di questo tipo siano severamente e fermamente puniti con la reclusione da 1 a 3 giorni di carcere.

1.2) Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, reca offesa ad un ordine amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, soggiace alla pena da 3 a 5 giorni.
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli [1.1] e [1.2] nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

1.3) Chiunque, con l’uso della violenza minaccia altri a fare o non fare qualche cosa è punito con la reclusione presso le prigioni di giorni 3 se colto sul fatto, ed una multa di 200 monete.
Circostanze aggravanti -
Le pene stabilite precedentemente sono aumentate se la violenza è commessa con armi, o da più persone riunite.

Art. 2

E’ punito con la reclusione da 2 a 4 giorni chiunque ponga in essere, in luoghi pubblici, atti lesivi del pudore.

Art. 3

E’ punito con la reclusione da 1 a 3 giorni chiunque venga colto nel tentativo di derubare qualcuno. Se il reato è stato consumato verrà comminata una multa pari al doppio dei denari sottratti o al doppio dell’equivalente del valore degli oggetti rubati.

______________________________


Gli Editti di Avalon

1) L’Isola di Avalon è protetta e regolata dal potere della Triade e del Pendragon.

Entrambe queste potenze vegliano sul suo equilibrio e proteggono coloro che vi trovano rifugio e vi hanno stabilito dimora.

L’accesso all’Isola di Avalon è libero a tutti purchè:

- non infrangano la pace di questa terra con atti violenti e/o sovversivi, ma ne rispettino l’armonia e le leggi di equilibrio.

- non impugnino armi se non per difesa propria o altrui o per allenamenti che possono aver luogo nelle sedi delle congreghe ivi residenti o nella sala d’armi appunto a ciò adibita.

2) Il Tempio della Triade, sull’Isola di Avalon è luogo Sacro per eccellenza.
L’ingresso è libero a tutti, tranne per coloro che per razza ne soffrirebbero (vampiri e darkgul).

All’interno del Tempio, la parola di una Sacerdotessa è LEGGE.

Se una delle figlie delle Stelle intima a qualcuno di allontanarsi o uscirne, l’opporsi può portare a conseguenze _assai gravi_, fino a risvegliare l’ira della Triade o del Pendragon stesso.

3) All’interno del Tempio della Triade, sull’Isola di Avalon, è **assolutamente** vietato brandire armi se non per difendere in caso di attacco, qualora il Fato sia avverso, chi vi sosta.

4) Coloro che chiedono asilo o si rifugiano nel Tempio sono protetti dalla Triade e dal Pendragon, fino al momento in cui sostano all’interno dell’edificio.
Chi tentasse o osasse minacciarne la vita o l’integrità all’interno del Tempio verrà perseguito senza pietà alcuna.

5) Nessun abitante del Regno ha facoltà di portarsi armi donate da un genitore defunto o da viandanti lungo la strada che porta ad Avalon.
Le armi possibili sono quelle comperate regolarmente al mercato o dalla congrega dei maestri dei mestieri.

6) Accanimento nei confronti di abitanti appartenenti a una qualsiasi congrega, non in grado di difendersi sul territorio Sacro dell'Isola di Avalon.

7) Brandire armi se non per scopi di difesa propria o altrui nell'Isola Sacra (Isola di Avalon).

Combattimenti, sfide e duelli potranno svolgersi esclusivamente sulla terraferma.
Qualora lo scontro portasse alla morte di uno dei contendenti, se la sfida era stata accettata, il defunto se ne era anzitempo assunto la piena responsabilità.

9) Avere come scopo *principale o unico* il combattimento e l'uccisione di abitanti delle nostre terre.

Chi verra' trovato a macchiarsi anche di uno solo dei crimini suddetti sara' sottoposto alle pene seguenti a seconda della gravita' della violazione o della ripetizione del comportamento illecito:

- multa di 1000 denari ed esilio o carcere di un mese

- multa di tutti i propri averi ed esilio o carcere di tre mesi

- La Regina, il Comandante dei Guardiani o il Signore del Pendragon potranno comminare l'esecuzione capitale dell'accusato [esilio definitivo] in casi da loro reputati gravi o lesivi del quieto vivere.

- Se il comportamento prevalente di un nostro suddito sara' giudicato quello di portare morte ed uccisione agli altri abitanti, la pena sara' IMMEDIATA e corrispondera' all'esilio, dopo esecuzione sommaria, della persona macchiatasi del crimine.

10) Per motivi di ordine e sicurezza è VIETATO celare il volto e non lasciarsi identificare dai guardiani o dalle guardie reali.

Chi cela il volto o si rifiuta di mostrarlo, qualora gliene venisse fatta richiesta, puo' essere trattenuto per accertamenti per tempo INDEFINITO.

L'ignoranza di questo editto non e' una scusante o motivo di mancato rispetto di ognuna delle sue parti e pertanto non varra' a far diminuire le pene comminate.



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
22/12/2010 12:56

SAFFO - Frammenti

{Note Off}
Autore: Saffo - Introduzione e opera a cura di sir Nataniel
Revisionato e corretto il: 09.11.08 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di piccola grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Il libercolo è opera di trascrizione di frammenti lirici della poetessa Saffo. L'opera di trascrizione e di biografia storica è a cura del sottoscritto.
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx




Brevi Cenni Biografici


"Dolce ridente Saffo coronata di viole" la chiamò Alceo di Mitilene che ebbe la fortuna di conoscerla.
La poetessa di Lesbo cantò i più delicati e sottili moti dell'anima, l'enigma dell'innamoramento, la forza struggente della passione, il distacco, la nostalgia, la melanconia; fu la prima voce a parlare di sé stessa della letteratura greca. Nacque sull’isola di Lesbo e visse tra l’ultimo quarto del VII secolo e la prima metà del VI . Direttrice di un collegio femminile, da lei stessa fondato, il tiaso, scrisse delle poesie per delle fanciulle che si allontanavano dal proprio collegio.
Secondo Saffo il bello è ciò che si ama. La poetessa nega quindi l’esistenza di una scala di valori in modo assoluto, affermando l’importanza dei sentimenti. L’amore è però un amore di tipo Platonico, ciò che suscita il desiderio di poter creare qualcosa di intellettuale. Saffo si abbandona alla natura ed ella possiede una grandissima capacità di trasformare i fenomeni della realtà in un’atmosfera musicale, grazie all’accurata scelta di immagini, vocaboli e suoni. Nelle sue poesie domina un senso di bellezza, che però rimanda ad un valore soggettivo. La sua è una poesia struggente, capace di piegare l'esperienza eroica di Omero all'impeto dei sentimenti.



Frammenti di Liriche



AD AFRODITE

O mia Afrodite dal simulacro
colmo di fiori, tu che non hai morte,
figlia di Zeus, tu che intrecci inganni,
o dominatrice, ti supplico,
non forzare l'anima mia
con affanni né con dolore;
ma qui vieni. Altra volta la mia voce
udendo di lontano la preghiera
ascoltasti, e lasciata la casa del padre
sul carro d'oro venisti.
Leggiadri veloci uccelli
sulla nera terra ti portarono,
dense agitando le ali per l'aria celeste.
E subito giunsero. E tu, o beata,
sorridendo nell'immortale volto
chiedesti del mio nuovo patire,
e che cosa un'altra volta invocavo,
e che più desideravo
nell'inquieta anima mia.
" Chi vuoi che Péito spinga al tuo amore,
o Saffo? Chi ti offende?
Chi ora ti fugge, presto t'inseguirà,
chi non accetta doni, ne offrirà,
chi non ti ama, pure contro voglia,
presto ti amerà."
Vieni a me anche ora:
liberami dai tormenti,
avvenga ciò che l'anima mia vuole:
aiutami, Afrodite.


{ @ }



INVITO ALL'ERANO

Venite al tempio sacro delle vergini
dove più grato è il bosco e sulle are
fuma l'incenso.
Qui fresca l'acqua mormora tra i rami
dei meli: il luogo è all'ombra di roseti,
dallo stormire delle foglie nasce
profonda quiete.
Qui il prato ove meriggiano i cavalli
è tutto fiori della primavera
e gli aneti vi odorano soavi.
E qui con impeto, dominatrice,
versa Afrodite nelle tazze d'oro
chiaro vino celeste con la gioia.


{ @ }



A ME PARE UGUALE AGLI DEI

A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.


{ @ }



PLENILUNIO


Gli astri d'intorno alla leggiadra luna
nascondono l'immagine lucente,
quando piena più risplende, bianca
sopra la terra.


{ @ }



A GONGILA

O mia Gòngila, ti prego:
metti la tunica bianchissima
e vieni a me davanti: intorno a te
vola desiderio d'amore.
Così adorna, fai tremare chi guarda;
e io ne godo, perchè la tua bellezza
rimprovera Afrodite.


{ @ }



TRAMONTATA E' LA LUNA

Tramontata è la luna
e le Peiadi a mezzo della notte;
anche la giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.


{ @ }



E DI TE NEL TEMPO

Tu morta, finirai lì. Né mai di te
si avrà memoria; e di te nel tempo
mai ad alcuno nascerà amore,
poi che non curi le rose della Pieria.
E sconosciuta anche nelle case dell'Ade,
andrai qua e là fra oscuri
morti, svolazzando.


{ @ }



SULLE BELLE CHIOME METTI GHIRLANDE

Tu, o Dice, sulle belle chiome metti ghirlande,
dalle tenere mani intrecciate con steli di aneto,
poichè le Càriti felici accolgono
chi si orna di fiori: fuggono chi è senza ghirlande.


{ @ }



SULLA TENERA ERBA APPENA NATA

Piena splendeva la luna
quando presso l'altare si fermarono:
e le Cretesi con armonia
sui piedi leggeri cominciarono
spensierate a girare intorno all'ara
sulla tenera erba appena nata.


{ @ }



VORREI VERAMENTE ESSERE MORTA

Vorrei veramente essere morta.
Essa lasciandomi piangendo forte,
mi disse: " Quanto ci è dato soffrire,
o Saffo: contro mia voglia
io devo abbandonarti."
"Allontanati felice" risposi
"ma ricorda che fui di te
sempre amorosa.
Ma se tu dimenticherai
(e tu dimentichi) io voglio ricordare
i nostri celesti patimenti:
le molte ghirlande di viole e rose
che a me vicina, sul grembo
intrecciasti col timo;
i vezzi di leggiadre corolle
che mi chiudesti intorno
al delicato collo;
e l'olio da re, forte di fiori,
che la tua mano lisciava
sulla lucida pelle;
e i molli letti
dove alle tenere fanciulle joniche
nasceva amore della tua bellezza.
Non un canto di coro,
né sacro, né inno nuziale
si levava senza le nostre voci;
e non il bosco dove a primavera
il suono......


{ @ }



AD ERMES

Ermes, io lungamente ti ho invocato.
In me è solitudine: tu aiutami,
despota, ché morte da sé non viene;
nulla m'alletta tanto che consoli.
Io voglio morire:
voglio vedere la riva d'Acheronte
fiorita di loto fresca di rugiada.


{ @ }



AD ATTIDE RICORDANDO L'AMICA LONTANA

Forse in Sardi
spesso con la memoria qui ritorna
nel tempo che fu nostro: quando
eri Afrodite per lei e al tuo canto
moltissimo godeva.
Ora fra le donne Lidie spicca
come, calato il sole,
la luna dai raggi rosa
vince tutti gli astri, e la sua luce
modula sulle acque del mare
e i campi presi d'erba:
e la rugiada illumina la rosa,
posa sul gracile timo e il trifoglio
simile a fiore.
Solitaria vagando, esita
e a volte se pensa ad Attide:
di desiderio l'anima trasale,
il cuore è aspro.
E d'improvviso: "Venite!" urla;
e questa voce non ignota
a noi per sillabe risuona
scorrendo sopra il mare.


{ @ }



QUALE DOLCE MELA

Quale dolce mela che su alto
ramo rosseggia, alta sul più
alto; la dimenticarono i coglitori;
no, non fu dimenticata: invano
tentarono raggiungerla.


{ @ }



COME IL GIACINTO

Come il giacinto che i pastori pestano
per i monti, e a terra il fiore purpureo
sanguina.


{ @ }



QUANTO DISPERSE LA LUCENTE AURORA

Espero, tutto riporti
quanto disperse la lucente Aurora:
riporti la pecora,
riporti la capra,
ma non riporti la figlia alla madre.
[Modificato da shadow.20 28/12/2010 23:43]



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
28/12/2010 23:41

Cucina Avalonese:alcune ricette


Nota OFF: Approvato dai Cuochi (Guilmun)





Primi Piatti
Zuppa Di Cavoli
Rompi i cavoli con le mani secondo l'usanza, e mettili nell'acqua quando bolle. E quando saranno mezzi cotti butta via tutta quell'acqua ed abbi di buon lardo strutto in buona quantità. Mettilo nei detti cavoli così asciutti, voltandoli bene bene con un cucchiaio. Poi piglierai di buon brodo grasso e in quello li metterai al fuoco a bollire per piccolo spazio di tempo



Zuppa alle erbe
Trita finemente e separatamente mezzochilo di bieta e una manciata di borragine, spinacini selvatici e lattuga. Abbi del buon brodo di manzo e portalo a bollore, poi mettici le verdure insieme ad un mazzetto di prezzemolo e uno di menta fresca. Fai cuocere mezz'ora e poi mangia caldo, con pan secco sul fondo della scodella


Zuppa di porri e mandorle
Bolli la parte bianca dei porri, poi scola e schiaccia nel mortaio fino a ottenere una crema. Trita le mandorle spellate e stemperale in acqua fino a che otterrai un liquido spesso. Filtralo, e poi mescolaci i porri ridotti in crema, aggiungi lo zenzero e fai bollire. Spolvera con pizzichi di noce moscata, cardamomo, cannella e chiodi di garofano




Zuppa di fave
Vanno cotte le fave in acqua finchè quasi non si disfanno, poi salale e mettile da parte.
Piglia una pentola e versaci mezzo litro di latte con lo zenzero e lo zafferano e fallo bollire, e poi sbatti 3 rossi d'ovo in una ciotola e aggiungi il latte un po' alla volta. Metti il sale e il pepe, poi versaci le fave riscaldate. Servi caldo, col pane fritto nell'aglio e nello strutto




Frittelline dell'elemosina
Si impasti farina con sale e pepe in una terrina, e acqua tiepida fino a che abbiansi un impasto morbido. Si scaldi una padellina di ferro con del lardo, poi che caldissimo doventa versarci dentro un mestolino dell'impasto formando frittelline, una alla volta. Si servano ben calde cosparse di salvia tritata e cacio



Mariconda
Abbi del pane raffermo e taglialo a fette senza crosta, indi poi ponile in una ciotola e coprile col latte a filo bordo. Lascia riposare mentre sciogli il burro in un tegame, poi unisci il pane scolato dal latte e mescola bene fino a che s'asciuga tutto. Levalo dal foco e mettici ova battute, sale, pepe, cacio, noce moscata. Lascia riposare ancora mentre fai bollire il brodo e poi buttaci l'impasto in forma di noci.



Del brodo dei capponi.

Togli capponi, e lessali; e quando siranno cotti con quelle spezie
che tu vorrai, rompili in uno catino con ova e brodo loro, e gitta
farina con mescola forata sopra i detti capponi rotti; e tutto questo
si gitta nel brodo, e bolla un poco: e' chiamasi brodo apollocato.

Altramente a la provenzale. Togli fegati, ventricchi e interiori di
capponi ben lavati e ben tagliati; e poni in una pentola con poca
acqua, e cuoci con spezie e ova dibattute, e colora come tu vuoli.
E puoi soffrigger le predette cose, e ponervi succhi acetosi e dolci.
Similmente puoi fare co' capi e piedi di capponi, o loro simili.

Altramente a la spagnuola si fa brodo verde. Tolli uccelli, fegatelli,
o carne, quantunche tu vuoli; lessali bene con bone spezie e erbe
verdi pestate; e poi, aggiuntovi ova dibattute, polle nel detto brodo
de la detta carne, e bollano. Il brodo non de' essere spesso.



Minestra del grano del Paradiso
Prepara ceci, farro, farina, olio, sale, pepe, cannella, salvia,
rosmarino, prezzemolo. Per farne octo menestre: togli una libra et meza di ciceri et lavali con acqua calda e poneli in quella casseruola dove gli
vorrai cocere et che sieno sciutti et mettevi meza oncia di farina, cioè del
fiore, et mettevi pocho olio et bono et un pocho di sale, e circha vinti
granelli di pepe rotto, et una pocha di cannella pista, et mena molto bene
tucte queste cose insieme con le mani. Dapoi ponevi tre bocali d'acqua et un pocha di salvia, et rosmarino, et radici di petrosillo, et fagli bollire
tanto che siano consumati alla quanntitade de octo menestre. Et quando sono quasi cotti mittili un pocho d'oglio. Et se lo brodo se facesse per gli
ammalati non gli porre ne olio ne spetie.



Carne & Pesce

Cervo arrosto
Si lava la carne di cervo con aceto e/o vino per togliere un po' del sapore di selvatico e la si sbollenta in acqua. Se il pezzo è girello o schiena, lo si riveste nella rete di maiale insime a un po' d'alloro e si mette sul fuoco bagnandolo ditanto in tanto con un po' di vino (eventualmente lo stesso di prima). Altrimenti si prepara una salsa con battuto di rosmarino, salvia e prezzemolo, sale e strutto; si mette la carne sul fuoco e la si bagna con questa salsa e con un po' del solito vino.




Arrosto di maiale
Si prende una spalla o un coscio di maiale, lo si fora in più punti con un coltello e nei fori si mettono sale grosso e rametti di prezzemolo. Si spennella il tutto con strutto o lo si involta con buon lardo. Si può arrostire in tegame o sulla brace (in quest'ultimo caso, spennellare continuamente con strutto).




Pasticcio di cacciagione
Si prendono diversi tipi di cacciagione e/o animali da cortile. Li puliamo, li tagliamo a pezzi e li arrostiamo in strutto; quindi, togliamo la carne dal tegame e la disossiamo accuratamente. Mettiamo le ossa e le pelli in un litro e mezzo d'acqua per fare un brodino. La carne, invece, va tagliata molto finemente e la si depone in una teglia da forno, alternandola con grose fette di pane raffermo: prima il pane, poi la carne, e così via come una sorta di lasagne; l'ultimo strato è ancora di pane. (Se si prepara per la tavola di un ricco, nella carne possono essere anche mischiati dei pinoli) Sopra al tutto versiamo il brodo e facciamo cuocere in forno fino a che tutto il brodo sarà stato riassorbito e il pane sarà tornato croccante.
Versione 2: Lo stesso tipo di pasticcio può essere realizzato anche vuotando un filone di pane da 1/2 kilo: si pratica un piccolo tassello su un lato e si scava la mollica, lasciando solo un centimetro di crosta. Sia l'esterno che l'interno del pane vanno spennellati bene con vino e uovo sbattuto (altrimenti dopo la cottura diventa durissimo); dentro al pane metteremo quindi la carne, preparata come sopra. Richiudiamo il tassello, lo spennelliamo bene con l'uovo avanzato e mettiamo in forno. Il brodo non viene utilizzato, e dunque servirà da bere come accompagnamento.




Cinghiale alla menta
Si prende 1 kg di cinghiale (preferibilmente spalla o schiena), lo si fa scottare un po' e poi lo si taglia a pezzetti. Intanto, lessiamo delle cipolle e tagliamo anch'esse a pezzettini. Infine, facciamo saltare in padella le cipolle e la carne insieme a strutto e menta, bagnando di tanto in tanto con vino rosso. Si porta in tavola decorato con menta fresca.




Polpette in salsa
Ad un chilo di carne mescola due rossi d'ovo, uva sultanina, zucchero, e spezie, che sceglierai come pepe, noce moscata, cannella sale e zafferano. Fanne polpettine, poi mettile in un tegame con brodo di manzo e una tazza di vino finchè non son cotte. Toglile dal fuoco e distendile in un vassoio di portata, cosparse d'una salsa fatta mettendo a bollire latte di mandorle, un mestolo di farina, tre di zucchero e cannella e noce moscata, fino a quando non si restringe e diventa cremosa. Contorna le polpettine con patate bollite e condite con strutto ed erba cipollina



Polpettine in crosta
Preparasi la farcia con un chilo di manzo tritato, prugne e datteri a pezzetti e uva sultanina, 2 mestoli d'aceto di mele, sale pepe e zafferano. La si metta da parte, poi si stenda una pasta di farina con un rosso d'ovo e lo strutto e ivi si ritaglino formine in forma di cerchio grandi una spanna, che andranno riempiti con la farcia preparata prima. Si chiudano i centrini a mo' di sacchetto, li si spennelli con ovo sbattuto e si mettano in forno finchè non sian dorati



Quaglie ripiene
Spiumale a secco, poi levagliil gozzo e svuotale. Fiammeggiale su fuoco senza fumo e poi mettile allo spiedo, fra l'una e l'altra avrai messo fette di lardo e foglie di alloro e le avrai ripiene di prelibato formaggio fondente, Mangiale col sale fine



Pesce in agrodolce
Lavato bene il pesce lo poni poi a friggere in abbondante olio. Lascialo raffreddare e intanto taglia per traverso le cipolle, poi friggi anche quelle. Aggiungici mandorle mondate, uva secca e prugne e leva l'olio che avanza prima di mettere pepe, zafferano e spezie scelte. Stempera bene al vino e all'aceto e metti sul foco finchè tutto bolle, indi in una teglia fai strato di pesce fritto e strato di cipolle e spezie. Se lo preferisci dolce aggiungi vino cotto e zucchero in giusta misura



Limonia
Bisogna soffriggere i polli col lardo e col pepe, tritare le mandorle mondate nel lardo che cuoce e speziare tutto. Se non hai mandorle, ispessisci il brodo con guscio d'ovo. Poco prima di mangiare mettici succo di limone
[Modificato da shadow.20 28/12/2010 23:42]



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
28/12/2010 23:48

SENECA - De Brevitate Vitae




{Note Off}
Autore: Seneca - a cura di Guillard
Revisionato e corretto il: 09.11.08 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di medio-grande grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Questo Scritto è stato gentilmente concesso alla Biblioteca di Barrington da sir Guillard Nevillieu, il quale ha redatto sia la parte in Lingua Originale Latina, sia quella Tradotta nella Comune Lingua.
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx






DE BREVITATE VITAE - SENECA






I.

1 Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aeui gignimur, quod haec tam uelociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso uitae apparatu uita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens uulgus ingemuit; clarorum quoque uirorum hic affectus querellas euocauit.
2 Inde illa maximi medicorum exclamatio est: "uitam breuem esse, longam artem". Inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conueniens sapienti uiro lis: "aetatis illam animalibus tantum indulsisse, ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare."
3 Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa uita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene collocaretur; sed ubi per luxum ac neglegentiam diffluit, ubi nulli bonae rei impenditur, ultima demum necessitate cogente, quam ire non intelleximus transisse sentimus.
4 Ita est: non accipimus breuem uitam sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum peruenerunt, momento dissipantur, at quamuis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt: ita aetas nostra bene disponenti multum patet.


II.

1 Quid de rerum natura querimur? Illa se benigne gessit: uita, si uti scias, longa est. [At] alium insatiabilis tenet auaritia; alium in superuacuis laboribus operosa sedulitas; alius uino madet, alius inertia torpet; alium defetigat ex alienis iudiciis suspensa semper ambitio, alium mercandi praeceps cupiditas circa omnis terras, omnia maria spe lucri ducit; quosdam torquet cupido militiae numquam non aut alienis periculis intentos aut suis anxios; sunt quos ingratus superiorum cultus uoluntaria seruitute consumat;
2 multos aut affectatio alienae formae aut suae querella detinuit; plerosque nihil certum sequentis uaga et inconstans et sibi displicens leuitas per noua consilia iactauit; quibusdam nihil quo cursum derigant placet, sed marcentis oscitantisque fata deprendunt, adeo ut quod apud maximum poetarum more oraculi dictum est uerum esse non dubitem: "Exigua pars est uitae qua uiuimus. Ceterum quidem omne spatium non uita sed tempus est.
3 Urgent et circumstant uitia undique nec resurgere aut in dispectum ueri attollere oculos sinunt. Et immersos et in cupiditatem infixos premunt, numquam illis recurrere ad se licet. Si quando aliqua fortuito quies contigit, uelut profundo mari, in quo post uentum quoque uolutatio est, fluctuantur nec umquam illis a cupiditatibus suis otium stat.
4 De istis me putas dicere, quorum in confesso mala sunt? Aspice illos ad quorum felicitatem concurritur:bonis suis effocantur. Quam multis diuitiae graues sunt! Quam multorum eloquentia et cotidiana ostentandi ingenii sollicitatio sanguinem educit! Quam multi continuis uoluptatibus pallent! Quam multis nihil liberi relinquit circumfusus clientium populus! Omnis denique istos ab infimis usque ad summos pererra: hic aduocat, hic adest, ille periclitatur, ille defendit, ille iudicat, nemo se sibi uindicat, alius in alium consumitur. Interroga de istis quorum nomina ediscuntur, his illos dinosci uidebis notis: ille illius ius cultor est, hic illius; suus nemo est.
5 Deinde dementissima quorundam indignatio est: queruntur de superiorum fastidio, quod ipsis adire uolentibus non uacauerint! Audet quisquam de alterius superbia queri, qui sibi ipse numquam uacat? Ille tamen te, quisquis es, insolenti quidem uultu sed aliquando respexit, ille aures suas ad tua uerba demisit, ille te ad latus suum recepit: tu non inspicere te umquam, non audire dignatus es. Non est itaque quod ista officia cuiquam imputes, quoniam quidem, cum illa faceres, non esse cum alio uolebas, sed tecum esse non poteras.


III.

1 Omnia licet quae umquam ingenia fulserunt in hoc unum consentiant, numquam satis hanc humanarum mentium caliginem mirabuntur: praedia sua occupari a nullo patiuntur et, si exigua contentio est de modo finium, ad lapides et arma discurrunt; in uitam suam incedere alios sinunt, immo uero ipsi etiam possessores eius futuros inducunt; nemo inuenitur qui pecuniam suam diuidere uelit, uitam unusquisque quam multis distribuit! Adstricti sunt in continendo patrimonio, simul ad iacturam temporis uentum est, profusissimi in eo cuius unius honesta auaritia est.
2 Libet itaque ex seniorum turba comprendere aliquem: "Peruenisse te ad ultimum aetatis humanae uidemus, centesimus tibi uel supra premitur annus: agedum, ad computationem aetatem tuam reuoca. Duc quantum ex isto tempore creditor, quantum amica, quantum rex, quantum cliens abstulerit, quantum lis uxoria, quantum seruorum coercitio, quantum officiosa per urbem discursatio; adice morbos quos manu fecimus, adice quod et sine usu iacuit: uidebis te pauciores annos habere quam numeras.
3 Repete memoria tecum quando certus consilii fueris, quotus quisque dies ut destinaueras recesserit, quando tibi usus tui fuerit, quando in statu suo uultus, quando animus intrepidus, quid tibi in tam longo aeuo facti operis sit, quam multi uitam tuam diripuerint te non sentiente quid perderes, quantum uanus dolor, stulta laetitia, auida cupiditas, blanda conuersatio abstulerit, quam exiguum tibi de tuo relictum sit: intelleges te immaturum mori."
4 Quid ergo est in causa? Tamquam semper uicturi uiuitis, numquam uobis fragilitas uestra succurrit, non obseruatis quantum iam temporis transierit; uelut ex pleno et abundanti perditis, cum interim fortasse ille ipse qui alicui uel homini uel rei donatur dies ultimus sit. Omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis.
5 Audies plerosque dicentes: "A quinquagesimo anno in otium secedam, sexagesimus me annus ab officiis dimittet." Et quem tandem longioris uitae praedem accipis? Quis ista sicut disponis ire patietur? Non pudet te reliquias uitae tibi reseruare et id solum tempus bonae menti destinare quod in nullam rem conferri possit? Quam serum est tunc uiuere incipere cum desinendum est? Quae tam stulta mortalitatis obliuio in quinquagesimum et sexagesimum annum differre sana consilia et inde uelle uitam inchoare quo pauci perduxerunt?


IV.

1 Potentissimis et in altum sublatis hominibus excidere uoces uidebis quibus otium optent, laudent, omnibus bonis suis praeferant. Cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit.
2 Diuus Augustus, cui dii plura quam ulli praestiterunt, non desiit quietem sibi precari et uacationem a re publica petere; omnis eius sermo ad hoc semper reuolutus est, ut speraret otium: hoc labores suos, etiam si falso, dulci tamen oblectabat solacio, aliquando se uicturum sibi.
3 In quadam ad senatum missa epistula, cum requiem suam non uacuam fore dignitatis nec a priore gloria discrepantem pollicitus esset, haec nerba inueni: "Sed ista fieri speciosius quam promitti possunt. Me tamen cupido temporis optatissimi mihi prouexit, ut quoniam rerum laetitia moratur adhuc, praeciperem aliquid uoluptatis ex uerborum dulcedine."
4 Tanta uisa est res otium, ut illam, quia usu non poterat, cogitatione praesumeret. Qui omnia uidebat ex se uno pendentia, qui hominibus gentibusque fortunam dabat, illum diem laetissimus cogitabat quo magnitudinem suam exueret.
5 Expertus erat quantum illa bona per omnis terras fulgentia sudoris exprimerent, quantum occultarum sollicitudinum tegerent: cum ciuibus primum, deinde cum collegis, nouissime cum affinibus coactus armis decernere mari terraque sanguinem fudit. Per Macedoniam, Siciliam, Aegyptum, Syriam Asiamque et omnis prope oras bello circumactus Romana caede lassos exercitus ad externa bella conuertit. Dum Alpes pacat immixtosque mediae paci et imperio hostes perdomat, dum [ut] ultra Rhenum et Euphraten et Danuuium terminos mouet, in ipsa urbe Murenae, Caepionis Lepidi, Egnati, aliorum in eum mucrones acuebantur.
6 Nondum horum effugerat insidias: filia et tot nobiles iuuenes adulterio uelut sacramento adacti iam infractam aetatem territabant Paulusque et iterum timenda cum Antonio mulier. Haec ulcera cum ipsis membris absciderat: alia subnascebantur; uelut graue multo sanguine corpus parte semper aliqua rumpebatur. Itaque otium optabat, in huius spe et cogitatione labores eius residebant, hoc uotum erat eius qui uoti compotes facere poterat.


V.

1 M. Cicero inter Catilinas, Clodios iactatus Pompeiosque et Crassos, partim manifestos inimicos, partim dubios amicos, dum fluctuatur cum re publica et illam pessum euntem tenet, nouissime abductus, nec secundis rebus quietus nec aduersarum patiens, quotiens illum ipsum consulatum suum non sine causa sed sine fine laudatum detestatur!
2 Quam flebiles uoces exprimit in quadam ad Atticum epistula iam uicto patre Pompeio, adhuc filio in Hispania fracta arma refouente! "Quid agam", inquit, "hic, quaeris? Moror in Tusculano meo semiliber." Alia deinceps adicit, quibus et priorem aetatem complorat et de praesenti queritur et de futura desperat.
3 Semiliberum se dixit Cicero: at me hercules numquam sapiens in tam humile nomen procedet, numquam semiliber erit, integrae semper libertatis et solidae, solutus et sui iuris et altior ceteris. Quid enim supra eum potest esse qui supra fortunam est?


VI.

1 Liuius Drusus, uir acer et uehemens, cum leges nouas et mala Gracchana mouisset stipatus ingenti totius Italiae coetu, exitum rerum non peruidens, quas nec agere licebat nec iam liberum erat semel incohatas relinquere, exsecratus inquietam a primordiis uitam dicitur dixisse: uni sibi ne puero quidem umquam ferias contigisse. Ausus est enim et pupillus adhuc et praetextatus iudicibus reos commendare et gratiam suam foro interponere tam efficaciter quidem, ut quaedam iudicia constet ab illo rapta.
2 Quo non erumperet tam immatura ambitio? Scires in malum ingens et priuatum et publicum euasuram tam praecoquem audaciam. Sero itaque querebatur nullas sibi ferias contigisse a puero seditiosus et foro grauis. Disputatur an ipse sibi manus attulerit; subito enim uulnere per inguen accepto collapsus est, aliquo dubitante an mors eius uoluntaria esset, nullo an tempestiua.
3 Superuacuum est commemorare plures qui, cum aliis felicissimi uiderentur, ipsi in se uerum testimonium dixerunt perosi omnem actum annorum suorum; sed his querellis nec alios mutauerunt nec se ipsos: nam cum uerba eruperunt, affectus ad consuetudinem relabuntur.
4 Vestra me hercules uita, licet supra mille annos exeat, in artissimum contrahetur: ista uitia nullum non saeculum deuorabunt; hoc uero spatium, quod quamuis natura currit ratio dilatat, cito uos effugiat necesse est; non enim apprenditis nec retinetis uel ocissimae omnium rei moram facitis, sed abire ut rem superuacuam ac reparabilem sinitis.


VII.

1 In primis autem et illos numero qui nulli rei nisi uino ac libidini uacant; nulli enim turpius occupati sunt. Ceteri, etiam si uana gloriae imagine teneantur, speciose tamen errant; licet auaros mihi, licet iracundos enumeres uel odia exercentes iniusta uel bella, omnes isti uirilius peccant: in uentrem ac libidinem proiectorum inhonesta tabes est.
2 Omnia istorum tempora excute, aspice quam diu computent, quam diu insidientur, quam diu timeant, quam diu colant, quam diu colantur, quantum uadimonia sua atque aliena occupent, quantum conuiuia, quae iam ipsa officia sunt: uidebis quemadmodum illos respirare non sinant uel mala sua uci bona.
3 Denique inter omnes conuenit nullam rem bene exerceri posse ab homine occupato, non eloquentiam, non liberales disciplinas, quando districtus animus nihil altius recipit sed omnia uelut inculcata respuit. Nihil minus est hominis occupati quam uiuere: nullius rei difficilior scientia est. Professores aliarum artium uulgo multique sunt, quasdam uero ex his pueri admodum ita percepisse uisi sunt, ut etiam praecipere possent: uiuere tota uita discendum est et, quod magis fortasse miraberis, tota uita discendum est mori.
4 Tot maximi uiri, relictis omnibus impedimentis, cum diuitiis, officiis, uoluptatibus renuntiassent, hoc unum in extremam usque aetatem egerunt ut uiuere scirent; plures tamen ex his nondum se scire confessi uita abierunt, nedum ut isti sciant.
5 Magni, mihi crede, et supra humanos errores eminentis uiri est nihil ex suo tempore delibari sinere, et ideo eius uita longissima est, quia, quantumcumque patuit, totum ipsi uacauit. Nihil inde incultum otiosumque iacuit, nihil sub alio fuit, neque enim quicquam repperit dignum quod cum tempore suo permutaret custos eius parcissimus. Itaque satis illi fuit: iis uero necesse est defuisse ex quorum uita multum populus tulit.
6 Nec est quod putes hinc illos aliquando non intellegere damnum suum: plerosque certe audies ex iis quos magna felicitas grauat inter clientium greges aut causarum actiones aut ceteras honestas miserias exclamare interdum: "Viuere mihi non licet."
7 Quidni non liceat? Omnes illi qui te sibi aduocant tibi abducunt. Ille reus quot dies abstulit? Quot ille candidatus? Quot illa anus efferendis heredibus lassa? Quot ille ad irritandam auaritiam captantium simulatus aeger? Quot ille potentior amicus, qui uos non in amicitiam sed in apparatu habet? Dispunge, inquam, et recense uitae tuae dies: uidebis paucos admodum et reiculos apud te resedisse.
8 Assecutus ille quos optauerat fasces cupit ponere et subinde dicit: "Quando hic annus praeteribit?" Facit ille ludos, quorum sortem sibi obtingere magno aestimauit: "Quando", inquit, "istos effugiam?" Diripitur ille toto foro patronus et magno concursu omnia ultra quam audiri potest complet: "Quando", inquit, "res proferentur?" Praecipitat quisque uitam suam et futuri desiderio laborat, praesentium taedio.
9 At ille qui nullum non tempus in usus suos confert, qui omnes dies tamquam ultimum ordinat, nec optat crastinum nec timet. Quid enim est quod iam ulla hora nouae uoluptatis possit afferre? Omnia nota, omnia ad satietatem percepta sunt. De cetero fors fortuna ut uolet ordinet: uita iam in tuto est. Huic adici potest, detrahi nihil, et adici sic quemadmodum saturo iam ac pleno aliquid cibi: quod nec desiderat [et] capit.
10 Non est itaque quod quemquam propter canos aut rugas putes diu uixisse: non ille diu uixit, sed diu fuit. Quid enim, si illum multum putes nauigasse quem saeua tempestas a portu exceptum huc et illuc tulit ac uicibus uentorum ex diuerso furentium per eadem spatia in orbem egit? Non ille multum nauigauit, sed multum iactatus est.


VIII.

1 Mirari soleo cum uideo aliquos tempus petentes et eos qui rogantur facillimos; illud uterque spectat propter quod tempus petitum est, ipsum quidem neuter: quasi nihil petitur, quasi nihil datur. Re omnium pretiosissima luditur; fallit autem illos, quia res incorporalis est, quia sub oculos non uenit ideoque uilissima aestimatur, immo paene nullum eius pretium est.
2 Annua, congiaria homines carissime accipiunt et illis aut laborem aut operam aut diligentiam suam locant: nemo aestimat tempus; utuntur illo laxius quasi gratuito. At eosdem aegros uide, si mortis periculum propius admotum est, medicorum genua tangentes, si metuunt capitale supplicium, omnia sua, ut uiuant, paratos impendere! Tanta in illis discordia affectuum est!
3 Quodsi posset quem-admodum praeteritorum annorum cuiusque numerus proponi, sic futurorum, quomodo illi qui paucos uiderent superesse trepidarent, quomodo illis parcerent! Atqui facile est quamuis exiguum dispensare quod certum est; id debet seruari diligentius quod nescias quando deficiat.
4 Nec est tamen quod putes illos ignorare quam cara res sit: dicere solent eis quos ualdissime diligunt paratos se partem annorum suorum dare: dant nec intellegunt: dant autem ita ut sine illorum incremento sibi detrahant. Sed hoc ipsum an detrahant nesciunt; ideo tolerabilis est illis iactura detrimenti latentis.
5 Nemo restituet annos, nemo iterum te tibi reddet. Ibit qua coepit aetas nec cursum suum aut reuocabit aut supprimet; nihil tumultuabitur, nihil admonebit uelocitatis suae: tacita labetur. Non illa se regis imperio, non fauore populi longius proferet: sicut missa est a primo die, curret, nusquam deuertetur, nusquam remorabitur. Quid fiet? Tu occupatus es, uita festinat; mors interim aderit, cui uelis nolis uacandum est.


IX.

1 Potestne quicquam stultius esse quam quorundam sensus, hominum eorum dico qui prudentiam iactant? Operosius occupati sunt. Vt melius possint uiuere, impendio uitae uitam instruunt. Cogitationes suas in longum ordinant; maxima porro uitae iactura dilatio est: illa primum quemque extrahit diem, illa eripit praesentia dum ulteriora promittit. Maximum uiuendi impedimentum est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum. Quod in manu fortunae positum est disponis, quod in tua, dimittis. Quo spectas? Quo te extendis? Omnia quae uentura sunt in incerto iacent: protinus uiue.
2 Clamat ecce maximus uates et uelut diuino horrore instinctus salutare carmen canit:

Optima quaeque dies miseris mortalibus aeui
Prima fugit.

"Quid cunctaris?", inquit, "Quid cessas? Nisi occupas, fugit." Et cum occupaueris, tamen fugiet: itaque cum celeritate temporis utendi uelocitate certandum est et uelut ex torrenti rapido nec semper ituro cito hauriendum.
3 Hoc quoque pulcherrime ad exprobrandam infinitam cogitationem quod non optimam quamque aetatem sed diem dicit. Quid securus et in tanta temporum fuga lentus menses tibi et annos in longam seriem, utcumque auiditati tuae uisum est, exporrigis? De die tecum loquitur et de hoc ipso fugiente.
4 Num dubium est ergo quin prima quaeque optima dies fugiat mortalibus miseris, id est occupatis? Quorum puerilis adhuc animos senectus opprimit, ad quam imparati inermesque perueniunt; nihil enim prouisum est: subito in illam necopinantes inciderunt, accedere eam cotidie non sentiebant.
5 Quemadmodum aut sermo aut lectio aut aliqua intentior cogitatio iter facientis decipit et peruenisse ante sciunt quam appropinquasse, sic hoc iter uitae assiduum et citatissimum quod uigilantes dormientesque eodem gradu facimus occupatis non apparet nisi in fine.


X.

1 Quod proposui si in partes uelim et argumenta diducere, multa mihi occurrent per quae probem breuissimam esse occupatorum uitam. Solebat dicere Fabianus, non ex his cathedrariis philosophis, sed ex ueris et antiquis, "contra affectus impetu, non subtilitate pugnandum, nec minutis uulneribus sed incursu auertendam aciem". Non probabat cauillationes: "enim contundi debere, non uellicari." Tamen, ut illis error exprobretur suus, docendi non tantum deplorandi sunt.
2 In tria tempora uita diuiditur: quod fuit, quod est, quod futurum est. Ex his quod agimus breue est, quod acturi sumus dubium, quod egimus certum. Hoc est enim in quod fortuna ius perdidit, quod in nullius arbitrium reduci potest.
3 Hoc amittunt occupati; nec enim illis uacat praeterita respicere, et si uacet iniucunda est paenitendae rei recordatio. Inuiti itaque ad tempora male exacta animum reuocant nec audent ea retemptare quorum uitia, etiam quae aliquo praesentis uoluptatis lenocinio surripiebantur, retractando patescunt. Nemo, nisi quoi omnia acta sunt sub censura sua, quae numquam fallitur, libenter se in praeteritum retorquet:
4 ille qui multa ambitiose concupiit superbe contempsit, impotenter uicit insidiose decepit, auare rapuit prodige effudit, necesse est memoriam suam timeat. Atqui haec est pars temporis nostri sacra ac dedicata, omnis humanos casus supergressa, extra regnum fortunae subducta, quam non inopia, non metus, non morborum incursus exagitet; haec nec turbari nec eripi potest; perpetua eius et intrepida possessio est. Singuli tantum dies, et hi per momenta, praesentes sunt; at praeteriti temporis omnes, cum jusseritis, aderunt, ad arbitrium tuum inspici se ac detineri patientur, quod facere occupatis non uacat.
5 Securae et quietae mentis est in omnes uitae suae partes discurrere; occupatorum animi, uelut sub iugo sint, flectere se ac respicere non possunt. Abit igitur uita eorum in profundum; et ut nihil prodest, licet quantumlibet ingeras, si non subest quod excipiat ac seruet, sic nihil refert quantum temporis detur, si non est ubi subsidat: per quassos foratosque animos transmittitur.
6 Praesens tempus breuissimum est, adeo quidem ut quibusdam nullum uideatur; in cursu enim semper est, fluit et praecipitatur; ante desinit esse quam uenit, nec magis moram patitur quam mundus aut sidera, quorum irrequieta semper agitatio numquam in eodem uestigio manet. Solum igitur ad occupatos praesens pertinet tempus, quod tam breue est ut arripi non possit, et id ipsum illis districtis in multa subducitur.


XI.

1 Denique uis scire quam non diu uiuant? Vide quam cupiant diu uiuere. Decrepiti senes paucorum annorum accessionem uotis mendicant: minores natu se ipsos esse fingunt; mendacio sibi blandiuntur et tam libenter se fallunt quam si una fata decipiant. Iam uero cum illos aliqua imbecillitas mortalitatis admonuit, quemadmodum pauentes moriuntur, non tamquam exeant de uita sed tamquam extrahantur. Stultos se fuisse ut non uixerint clamitant et, si modo euaserint ex illa ualetudine, in otio uicturos; tunc quam frustra parauerint quibus non fruerentur, quam in cassum omnis ceciderit labor cogitant.
2 At quibus uita procul ab omni negotio agitur, quidni spatiosa sit? Nihil ex illa delegatur, nihil alio atque alio spargitur, nihil inde fortunae traditur, nihil neglegentia interit, nihil largitione detrahitur, nihil superuacuum est: tota, ut ita dicam, in reditu est. Quantulacumque itaque abunde sufficit, et ideo, quandoque ultimus dies uenerit, non cunctabitur sapiens ire ad mortem certo gradu.


XII.

1 Quaeris fortasse quos occupatos uocem? Non est quod me solos putes dicere quos a basilica immissi demum canes eiciunt, quos aut in sua uides turba speciosius elidi aut in aliena contemptius, quos officia domibus suis euocant ut alienis foribus illidant, [aut] hasta praetoris infami lucro et quandoque suppuraturo exercet.
2 Quorundam otium occupatum est: in uilla aut in lecto suo, in media solitudine, quamuis ab omnibus recesserint, sibi ipsi molesti sunt: quorum non otiosa uita dicenda est sed desidiosa occupatio. Illum tu otiosum uocas qui Corinthia, paucorum furore pretiosa, anxia subtilitate concinnat et maiorem dierum partem in aeruginosis lamellis consumit? qui in ceromate (nam, pro facinus! ne Romanis quidem uitiis laboramus) spectator puerorum rixantium sedet? qui iumentorum suorum greges in aetatum et colorum paria diducit ? qui athletas nouissimos pascit?
3 Quid? Illos otiosos uocas quibus apud tonsorem multae horae transmittuntur, dum decerpitur si quid proxima nocte succreuit, dum de singulis capillis in consilium itur, dum aut disiecta coma restituitur aut deficiens hinc atque illinc in frontem compellitur? Quomodo irascuntur, si tonsor paulo neglegentior fuit, tamquam uirum tonderet! Quomodo excandescunt si quid ex iuba sua decisum est, si quid extra ordinem iacuit, nisi omnia in anulos suos reciderunt! Quis est istorum qui non malit rem publicam turbari quam comam suam? qui non sollicitior sit de capitis sui decore quam de salute? qui non comptior esse malit quam honestior? Hos tu otiosos uocas inter pectinem speculumque occupatos?
4 Quid illi qui in componendis, audiendis, discendis canticis operati sunt, dum uocem, cuius rectum cursum natura et optimum et simplicissimum fecit, in flexus modulationis inertissimae torquent, quorum digiti aliquod intra se carmen metientes semper sonant, quorum, cum ad res serias, etiam saepe tristes adhibiti sunt, exauditur tacita modulatio? Non habent isti otium, sed iners negotium.
5 Conuiuia me hercules horum non posuerim inter uacantia tempora, cum uideam quam solliciti argentum ordinent, quam diligenter exoletorum suorum tunicas succingant, quam suspensi sint quomodo aper a coco exeat, qua celeritate signo dato glabri ad ministeria discurrant, quanta arte scindantur aues in frusta non enormia, quam curiose infelices pueruli ebriorum sputa detergeant: ex his elegantiae lautitiaeque fama captatur et usque eo in omnes uitae secessus mala sua illos sequuntur, ut nec bibant sine ambitione nec edant.
6 Ne illos quidem inter otiosos numeraueris qui sella se et lectica huc et illuc ferunt et ad gestationum suarum, quasi deserere illas non liceat, horas occurrunt, quos quando lauari debeant, quando natare, quando cenare alius admonet: [et] usque eo nimio delicati animi languore soluuntur, ut per se scire non possint an esuriant.
7 Audio quendam ex delicatis (si modo deliciae uocandae sunt uitam et consuetudinem humanam dediscere), cum ex balneo inter manus elatus et in sella positus esset, dixisse interrogando: "Iam sedeo?" Hunc tu ignorantem an sedeat putas scire an uiuat, an uideat, an otiosus sit? Non facile dixerim utrum magis miserear, si hoc ignorauit an si ignorare se finxit.
8 Multarum quidem rerum obliuionem sentiunt, sed multarum et imitantur; quaedam uitia illos quasi felicitatis argumenta delectant; nimis humilis et contempti hominis uidetur scire quid facias: i nunc et mimos multa mentiri ad exprobrandam luxuriam puta. Plura me hercules praetereunt quam fingunt et tanta incredibilium uitiorum copia ingenioso in hoc unum saeculo processit, ut iam mimorum arguere possimus neglegentiam. Esse aliquem qui usque eo deliciis interierit ut an sedeat alteri credat!
9 Non est ergo hic otiosus, aliud illi nomen imponas; aeger est, immo mortuus est; ille otiosus est cui otii sui et sensus est. Hic uero semiuiuus, cui ad intellegendos corporis sui habitus indice opus est, quomodo potest hic ullius temporis dominus esse?


XIII

1 Persequi singulos longum est quorum aut latrunculi aut pila aut excoquendi in sole corporis cura consumpsere uitam. Non sunt otiosi quorum uoluptates multum negotii habent. Nam de illis nemo dubitabit quin operose nihil agant, qui litterarum inutilium studiis detinentur, quae iam apud Romanos quoque magna manus est.
2 Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae siue contineas nihil tacitam conscientiam iuuant, suie proferas non doctior uidearis sed molestior.
3 Ecce Romanos quoque inuasit inane studium superuacua discendi; his diebus audiui quendam referentem quae primus quisque ex Romanis ducibus fecisset: primus nauali proelio Duilius uicit, primus Curius Dentatus in triumpho duxit elephantos. Etiamnunc ista, etsi ad ueram gloriam non tendunt, circa ciuilium tamen operum exempla uersantur; non est profutura talis scientia, est tamen quae nos speciosa rerum uanitate detineat.
4 Hoc quoque quaerentibus remittamus quis Romanis primus persuaserit nauem conscendere (Claudius is fuit, Caudex ob hoc ipsum appellatus quia plurium tabularum contextus caudex apud antiquos uocatur, unde publicae tabulae codices dicuntur et naues nunc quoque ex antiqua consuetudine quae commeatus per Tiberim subuehunt codicariae uocantur) ;
5 sane et hoc ad rem pertineat, quod Valerius Coruinus primus Messanam uicit et primus ex familia Valeriorum, urbis captae in se translato nomine, Messana appellatus est paulatimque uulgo permutante litteras Messala dictus:
6 num et hoc cuiquam curare permittes quod primus L. Sulla in circo leones solutos dedit, cum alioquin alligati darentur, ad conficiendos eos missis a rege Boccho iaculatoribus? Et hoc sane remittatur: num et Pompeium primum in circo elephantorum duodeuiginti pugnam edidisse commissis more proelii noxiis hominibus, ad ullam rem bonam pertinet? Princeps ciuitatis et inter antiquos principes (ut fama tradidit) bonitatis eximiae memorabile putauit spectaculi genus nouo more perdere homines. Depugnant? Parum est. Lancinantur? Parum est: ingenti mole animalium exterantur!
7 Satius erat ista in obliuionem ire, ne quis postea potens disceret inuideretque rei minime humanae. O quantum caliginis mentibus nostris obicit magna felicitas! Ille se supra rerum naturam esse tunc credidit, cum tot miserorum hominum cateruas sub alio caelo natis beluis obiceret, cum bellum inter tam disparia animalia committeret, cum in conspectum populi Romani multum sanguinis funderet mox plus ipsum fundere coacturus; at idem postea Alexandrina perfidia deceptus ultimo mancipio transfodiendum se praebuit, tum demum intellecta inani iactatione cognominis sui.
8 Sed, ut illo reuertar unde decessi et in eadem materia ostendam superuacuam quorundam diligentiam, idem narrabat Metellum, uictis in Sicilia Poenis triumphantem, unum omnium Romanorum ante currum centum et uiginti captiuos elephantos duxisse; Sullam ultimum Romanorum protulisse pomerium, quod numquam prouinciali sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit. Hoc scire magis prodest quam Auentinum montem extra pomerium esse, ut ille affirmabat, propter alteram ex duabus causis, aut quod plebs eo secessisset aut quod Remo auspicante illo loco aues non addixissent, alia deinceps innumerabilia quae aut farta sunt mendaciis aut similia?
9 Nam ut concedas omnia eos fide bona dicere, ut ad praestationem scribant, tamen cuius ista errores minuent? cuius cupiditates prement? quem fortiorem, quem iustiorem, quem liberaliorem facient? Dubitare se interim Fabianus noster aiebat an satius esset nullis studiis admoueri quam his implicari.


XIV.

1 Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae uacant, soli uiuunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aeuum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est, illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus, illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt, nobis uitam praeparauerunt. Ad res pulcherrimas ex tenebris ad lucem erutas alieno labore deducimur; nullo nobis saeculo interdictum est, in omnia admittimur et, si magnitudine animi egredi humanae imbecillitatis angustias libet, multum per quod spatiemur temporis est.
2 Disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis uincere, cum Cynicis excedere. Cum rerum natura in consortium omnis aeui patiatur incedere, quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu in illa toto nos demus animo quae immensa, quae aeterna sunt, quae cum melioribus communia?
3 Isti qui per officia discursant, qui se aliosque inquietant, cum bene insanierint, cum omnium limina cotidie perambulauerint nec ullas apertas fores praeterierint, cum per diuersissimas domos meritoriam salutationem circumtulerint, quotum quemque ex tam immensa et uariis cupiditatibus districta urbe poterunt uidere?
4 Quam multi erunt quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoueat! Quam multi qui illos, cum diu torserint, simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire uitabunt et per obscuros aedium aditus profugient, quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi hesterna crapula semisomnes et graues illis miseris suum somnum rumpentibus ut alienum exspectent, uix alleuatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent!
5 Hos in ueris officiis morari putamus, licet dicant, qui Zenonem, qui Pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium, qui Aristotelen et Theophrastum uolent habere quam familiarissimos. Nemo horum non uacabit, nemo non uenientem ad se beatiorem, amantiorem sui dimittet, nemo quemquam uacuis a se manibus abire patietur; nocte conueniri, interdiu ab omnibus mortalibus possunt.


XV.

1 Horum te mori nemo coget, omnes docebunt; horum nemo annos tuos conterit, suos tibi contribuit; nullius ex his sermo periculosus erit, nullius amicitia capitalis, nullius sumptuosa obseruatio. Feres ex illis quicquid uoles; per illos non stabit quominus quantum plurimum cupieris haurias.
2 Quae illum felicitas, quam pulchra senectus manet, qui se in horum clientelam contulit! Habebit cum quibus de minimis maximisque rebus deliberet, quos de se cotidie consulat, a quibus audiat uerum sine contumelia, laudetur sine adulatione, ad quorum se similitudinem effingat.
3 Solemus dicere non fuisse in nostra potestate quos sortiremur parentes, forte nobis datos: bonis uero ad suum arbitrium nasci licet. Nobilissimorum ingeniorum familiae sunt: elige in quam adscisci uelis; non in nomen tantum adoptaberis, sed in ipsa bona, quae non erunt sordide nec maligne custodienda: maiora fient quo illa pluribus diuiseris.
4 Hi tibi dabunt ad aeternitatem iter et te in illum locum ex quo nemo deicitur subleuabunt. Haec una ratio est extendendae mortalitatis, immo in immortalitatem uertendae. Honores, monumenta, quicquid aut decretis ambitio iussit aut operibus exstruxit cito subruitur, nihil non longa demolitur uetustas et mouet; at iis quae consecrauit sapientia nocere non potest; nulla abolebit aetas, nulla deminuet; sequens ac deinde semper ulterior aliquid ad uenerationem conferet, quoniam quidem in uicino uersatur inuidia, simplicius longe posita miramur.
5 Sapientis ergo multum patet uita; non idem illum qui ceteros terminus cludit; solus generis humani legibus soluitur; omnia illi saecula ut deo seruiunt. Transiit tempus aliquod? hoc recordatione comprendit; instat? hoc utitur; uenturum est? hoc praecipit. Longam illi uitam facit omnium temporum in unum collatio.


XVI.

1 Illorum breuissima ac sollicitissima aetas est qui praeteritorum obliuiscuntur, praesentia neglegunt, de futuro timent: cum ad extrema uenerunt, sero intellegunt miseri tam diu se dum nihil agunt occupatos fuisse.
2 Nec est quod hoc argumento probari putes longam illos agere uitam, quia interdum mortem inuocant: uexat illos imprudentia incertis affectibus et incurrentibus in ipsa quae metuunt; mortem saepe ideo optant quia timent.
3 Illud quoque argumentum non est quod putes diu uiuentium, quod saepe illis longus uidetur dies, quod, dum ueniat condictum tempus cenae, tarde ire horas queruntur; nam si quando illos deseruerunt occupationes, in otio relicti aestuant nec quomodo id disponant ut extrahant sciunt. Itaque ad occupationem aliquam tendunt et quod interiacet omne tempus graue est, tam me hercules quam cum dies muneris gladiatorii edictus est, aut cum alicuius alterius uel spectaculi uel uoluptatis exspectatur constitutum, transilire medios dies uolunt.
4 Omnis illis speratae rei longa dilatio est; at illud tempus quod amant breue est et praeceps breuiusque multo, suo uitio; aliunde enim alio transfugiunt et consistere in una cupiditate non possunt. Non sunt illis longi dies, sed inuisi; at contra quam exiguae noctes uidentur, quas in complexu scortorum aut umo exigunt!
5 Inde etiam poetarum furor fabulis humanos errores alentium, quibus uisus est Iuppiter uoluptate concubitus delenitus duplicasse noctem; quid aliud est uitia nostra incendere quam auctores illis inscribere deos et dare morbo exemplo diuinitatis excusatam licentiam? Possunt istis non breuissimae uideri noctes quas tam care mercantur? Diem noctis exspectatione perdunt, noctem lucis metu.


XVII

1 Ipsae uoluptates eorum trepidae et uariis terroribus inquietae sunt subitque cum maxime exsultantis sollicita cogitatio: "Haec quam diu?" Ab hoc affectu reges suam fleuere potentiam, nec illos magnitudo fortunae suae delectauit, sed uenturus aliquando finis exterruit.
2 Cum per magna camporum spatia porrigeret exercitum nec numerum eius sed mensuram comprenderet Persarum rex insolentissimus, lacrimas profudit, quod intra centum annos nemo ex tanta iuuentute superfuturus esset; at illis admoturus erat fatum ipse qui flebat perditurusque alios in mari alios in terra, alios proelio alios fuga, et intra exiguum tempus consumpturus illos quibus centesimum annum timebat.
3 Quid quod gaudia quoque eorum trepida sunt? Non enim solidis causis innituntur, sed eadem qua oriuntur uanitate turbantur. Qualia autem putas esse tempora etiam ipsorum confessione misera, cum haec quoque quibus se attollunt et super hominem efferunt parum sincera sint?
4 Maxima quaeque bona sollicita sunt nec ulli fortunae minus bene quam optimae creditur; alia felicitate ad tuendam felicitatem opus est et pro ipsis quae successere uotis uota facienda sunt. Omne enim quod fortuito obuenit instabile est: quod altius surrexerit, opportunius est in occasum. Neminem porro casura delectant; miserrimam ergo necesse est, non tantum breuissimam uitam esse eorum qui magno parant labore quod maiore possideant.
5 Operose assequuntur quae uolunt, anxii tenent quae assecuti sunt; nulla interim numquam amplius redituri temporis ratio est: nouae occupationes ueteribus substituuntur, spes spem excitat, ambitionem ambitio. Miseriarum non finis quaeritur, sed materia mutatur. Nostri nos honores torserunt? plus temporis alieni auferunt; candidati laborare desiimus? suffragatores incipimus; accusandi deposuimus molestiam? iudicandi nanciscimur; iudex desiit esse? quaesitor est; alienorum bonorum mercennaria procuratione consenuit? suis opibus distinetur.
6 Marium caliga dimisit? consulatus exercet; Quintius dictaturam properat peruadere? ab aratro reuocabitur. Ibit in Poenos nondum tantae maturus rei Scipio; uictor Hannibalis uictor Antiochi, sui consulatus decus fraterni sponsor, ni per ipsum mora esset, cum loue reponeretur: ciuiles seruatorem agitabunt seditiones et post fastiditos a iuuene diis aequos honores iam senem contumacis exilii delectabit ambitio. Numquam derunt uel felices uel miserae sollicitudinis causae; per occupationes uita trudetur; otium numquam agetur, semper optabitur.


XVIII.

1 Excerpe itaque te uulgo, Pauline carissime, et in tranquilliorem portum non pro aetatis spatio iactatus tandem recede. Cogita quot fluctus subieris, quot tempestates partim priuatas sustinueris, partim publicas in te conuerteris; satis iam per laboriosa et inquieta documenta exhibita uirtus est; experire quid in otio faciat. Maior pars aetatis, certe melior rei publicae datast: aliquid temporis tui sume etiam tibi.
2 Nec te ad segnem aut inertem quietem uoco, non ut somno et caris turbae uoluptatibus quicquid est in te indolis uiuidae mergas; non est istud adquiescere: inuenies maiora omnibus adhuc strenue tractatis operibus, quae repositus et securus agites.
3 Tu quidem orbis terrarum rationes administras tam abstinenter quam alienas, tam diligenter quam tuas, tam religiose quam publicas. In officio amorem consequeris, in quo odium uitare difficile est; sed tamen, mihi crede, satius est uitae suae rationem quam frumenti publici nosse.
4 Istum animi uigorem rerum maximarum capacissimum a ministerio honorifico quidem sed parum ad beatam uitam apto reuoca, et cogita non id egisse te ab aetate prima omni cultu studiorum liberalium ut tibi multa milia frumenti bene committerentur; maius quiddam et altius de te promiseras. Non derunt et frugalitatis exactae homines et laboriosae operae; tanto aptiora [ex]portandis oneribus tarda iumenta sunt quam nobiles equi, quorum generosam pernicitatem quis umquam graui sarcina pressit?
5 Cogita praeterea quantum sollicitudinis sit ad tantam te molem obicere: cum uentre tibi humano negotium est; nec rationem patitur nec aequitate mitigatur nec ulla prece flectitur populus esuriens. Modo modo intra paucos illos dies quibus C. Caesar periit (si quis inferis sensus est) hoc grauissime ferens quod decedebat populo Romano superstite, septem aut octo certe dierum cibaria superesse! Dum ille pontes nauibus iungit et uiribus imperi ludit, aderat ultimum malorum obsessis quoque, alimentorum egestas; exitio paene ac fame constitit et, quae famem sequitur, rerum omnium ruina furiosi et externi et infeliciter superbi regis imitatio.
6 Quem tunc animum habuerunt illi quibus erat mandata frumenti publici cura, saxa, ferrum, ignes, Gaium excepturi? Summa dissimulatione tantum inter uiscera latentis mali tegebant, cum ratione scilicet: quaedam enim ignorantibus aegris curanda sunt, causa multis moriendi fuit morbum suum nosse.


XIX.

1 Recipe te ad haec tranquilliora, tutiora, maiora! Simile tu putas esse, utrum cures ut incorruptum et a fraude aduehentium et a neglegentia frumentum transfundatur in horrea, ne concepto umore uitietur et concalescat, ut ad mensuram pondusque respondeat, an ad haec sacra et sublimia accedas sciturus quae materia sit dei, quae uoluptas, quae condicio, quae forma; quis animum tuum casus exspectet; ubi nos a corporibus dimissos natura componat; quid sit quod huius mundi grauissima quaeque in medio sustineat, supra leuia suspendat, in summum ignem ferat, sidera uicibus suis excitet; cetera deinceps ingentibus plena miraculis?
2 Vis tu relicto solo mente ad ista respicere! Nunc, dum calet sanguis, uigentibus ad meliora eundum est. Exspectat te in hoc genere uitae multum bonarum artium, amor uirtutum atque usus, cupiditatum obliuio, uiuendi ac moriendi scientia, alta rerum quies.


XX.

1 Omnium quidem occupatorum condicio misera est, eorum tamen miserrima, qui ne suis quidem laborant occupationibus, ad alienum dormiunt somnum, ad alienum ambulant gradum, amare et odisse, res omnium liberrimas, iubentur. Hi si uolent scire quam breuis ipsorum uita sit, cogitent ex quota parte sua sit.
2 Cum uideris itaque praetextam saepe iam sumptam, cum celebre in foro nomen, ne inuideris: ista uitae damno parantur. Vt unus ab illis numeretur annus, omnis annos suos conterent. Quosdam antequam in summum ambitionis eniterentur, inter prima luctantis aetas reliquit; quosdam, cum in consummationem dignitatis per mille indignitates erepsissent, misera subiit cogitatio laborasse ipsos in titulum sepulcri; quorundam ultima senectus, dum in nouas spes ut iuuenta disponitur, inter conatus magnos et improbos inualida defecit.
3 Foedus ille quem in iudicio pro ignotissimis litigatoribus grandem natu et imperitae coronae assensiones captantem spiritus liquit; turpis ille qui uiuendo lassus citius quam laborando inter ipsa officia collapsus est; turpis quem accipiendis immorientem rationibus diu tractus risit heres.
4 Praeterire quod mihi occurrit exemplum non possum: Turannius fuit exactae diligentiae senex, qui post annum nonagesimum, cum uacationem procurationis ab C. Caesare ultro accepisset, componi se in lecto et uelut exanimem a circumstante familia plangi iussit. Lugebat domus otium domini senis nec finiuit ante tristitiam quam labor illi suus restitutus est. Adeone iuuat occupatum mon?
5 Idem plerisque animus est; diutius cupiditas illis laboris quam facultas est; cum imbecillitate corporis pugnant, senectutem ipsam nullo alio nomine grauem iudicant quam quod illos seponit. Lex a quinquagesimo anno militem non legit, a sexagesimo senatorem non citat: difficilius homines a se otium impetrant quam a lege.
6 Interim dum rapiuntur et rapiunt, dum alter alterius quietem rumpit, dum mutuo miseri sunt, uita est sine fructu, sine uoluptate, sine ullo profectu animi; nemo in conspicuo mortem habet, nemo non procul spes intendit, quidam uero disponunt etiam illa quae ultra uitam sunt, magnas moles sepulcrorum et operum publicorum dedicationes et ad rogum munera et ambitiosas exsequias. At me hercules istorum funera, tamquam minimum uixerint, ad faces et cereos ducenda sunt.






°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
28/12/2010 23:50

DE BREVITATE VITAE - SENECA: parte seconda




TRADUZIONE IN LINGUA COMUNE




I.
La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla.

II.
Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: "Piccola è la porzione di vita che viviamo". Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso.

III.
Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli anziani: "Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite di dovere attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori anzitempo". Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: "Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata". E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati!

IV.
Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni. Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se niente preme e turba dall'esterno, la fortuna crolla su se stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero: alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste parole: "Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della realtà si fa attendere, a pregustare un po' di piacere dalla dolcezza delle parole." Così grande cosa gli sembrava il tempo libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con l'immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo, che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i concittadini, poi con i colleghi, infine con i parenti, versò sangue per terra e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l'Egitto, la Siria e l'Asia e quasi tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i nemici mischiati in mezzo alla pace e all'impero, mentre spostava i confini oltre il Reno, l'Eufrate ed il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia e tanti giovani nobili legati dal vincolo dell'adulterio come da un giuramento ne atterrivano la stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con un Antonio. Aveva tagliato via queste ferite con le stesse membra: altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue, sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render gli altri paghi dei loro voti.

V.
Marco Cicerone, sballottato tra i Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in sesto le armate scompaginate! "Mi domandi" dice "cosa faccio qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo". Poi aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo passato, si lamenta del presente e dispera del futuro. Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra della fortuna?

VI.
Livio Druso, uomo rude ed impulsivo, avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi, pressato da una grande aggregazione dell'Italia intera, non prevedendo l'esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi, abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da un improvviso colpo all'inguine, si accasciò, e vi è chi dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri, testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che, benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile.

VII.
Tra i primi annovero senz'altro coloro che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo; elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell'aver timore, quanto nell'essere servili, quanto li tengano occupati le proprie promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono diventati anch'essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo affaccendato, non l'eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all'ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l'ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l'influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: "Non mi è permesso vivere." E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell'imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l'ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell'influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: "Quando passerà quest'anno?" Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: "Quando li fuggirò?" Quell'avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: "Quando verranno proclamate le ferie?" Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera ma lo accoglie. Perciò non c'è motivo che tu ritenga che uno sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe: costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto.

VIII.
Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino, avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere: quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni passati di ognuno, così come quelli futuri, come trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro, per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli; perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale, volente o nolente, bisogna avere tempo.

IX.
Cosa potresti immaginare di più insensato di quegli uomini che menano vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: "I primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni migliori della vita." Dice: "Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono." E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non "il tempo migliore", ma "i giorni migliori." Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine.

X.
Se volessi dividere ciò che ho esposto e le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca], il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni bisogna combattere d'istinto, non di sottigliezza, e respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l'animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l'assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni.

XI.
Vuoi dunque sapere quanto poco tempo (gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l'aggiunta di pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la bugia e illudono se stessi così volentieri come se ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti, tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a quante cose si siano procurate invano, e delle quali non avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo.

XII.
Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l'asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all'asta dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell'ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po' disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l'argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all'ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: "Sono già seduto?". Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell'uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento?

XIII.
Sarebbe lungo enumerare uno ad uno coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea e inoltre se fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili: questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose. Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i Romani a salire su una nave - è stato Claudio, proprio per questo chiamato Codice ["caudica" era una barca, ricavata in un tronco, detto "caudex"], perché l'aggregato di parecchie tavole era chiamato "codice" presso gli antichi, per cui i pubblici registri si dicono "codici" e anche ora le navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica consuetudine vengono chiamate "codicarie" - ; certamente anche ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi, come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini in una maniera nuova. "Combattono all'ultimo sangue? È poco. Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall'enorme mole degli animali!". Era meglio che queste cose andassero nel dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici, organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili, spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi, ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per essere ucciso dall'ultimo schiavo [l'eunuco Achillas, che pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora l'inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno]. Ma per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l'ultimo dei Romani ad aver ampliato il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato libero, all'interno e all'esterno della cinta muraria di Roma], che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l'acquisizione di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile (che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio, come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi.

XIV.
Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell'animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell'uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l'atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l'inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno.

XV.
Nessuno di essi ti costringerà a morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l'amicizia, di nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse) vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il cammino verso l'eternità e ti eleveranno in quel luogo dal quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l'ambizione ha stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà; quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina l'invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l'invidia) e situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana, tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve; sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la raccolta di ogni tempo in uno solo.

XVI.
Molto breve e travagliata è la vita di coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o quando si attende il momento stabilito di qualche altro spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro; infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto dall’amplesso [lett.: addolcito dal piacere], abbia raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena, cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare al male giustificata licenza mediante l’esempio della divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa della notte, la note per paura del giorno.

XVII.
Gli stessi loro piaceri sono ansiosi ed inquieti per vari timori e subentra l'angosciosa domanda di chi è al massimo del piacere [lett.: di chi massimamente gioisce]: "Fino a quanto ciò (durerà)?". Da questo stato d'animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine imminente. Avendo dispiegato l'esercito attraverso enormi spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la dimensione, l'orgogliosissimo re dei Persiani [Serse] versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi (periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di sopra dell'umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono, ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza risveglia la speranza, un'ambizione l'ambizione. Non si cerca la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell'accusare: cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere giudice: diventa inquisitore; è invecchiato nell'amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato] si affanna ad evitare la carica di dittatore [lett.: la dittatura]: sarà richiamato dall'aratro. Scipione marcerà contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa; vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.], orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio], se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]: sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai vecchio (lo) compiacerà l'ostentazione di un orgoglioso esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà desiderato.

XVIII.
Allontànati dunque dalla folla, carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato; già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c'è in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri, tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici. Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale. Allontana questa vigoria dell'animo, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] - se vi è una qualche sensibilità nell'aldilà, sostenendo ciò con animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell'impero, si avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e l'imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia]. Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti alcuni mali vanno curati all'insaputa degli ammalati: per molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male.

XIX.
Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai integro sia dalla frode che dall'incuria dei trasportatori, che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra, rivolgere l'attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l'amore e la pratica delle virtù, l'oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del vivere e del morire), una profonda quiete delle cose.

XX.
Certamente miserevole è la condizione di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende, dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare, cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro, non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all'ambizione, alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime (difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in mente l'amara considerazione di essersi dannati per l'epitaffio; di certuni venne meno l'estrema vecchiaia, mentre come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti del tutto sconosciuti e cercando l'assenso di un uditorio ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che l'erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata coscienziosità, che dopo i novant'anni, avendo ricevuto inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l'esonero dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui. Piangeva la casa l'inattività del vecchio padrone e non cessò il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d'animo ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama sotto le armi a partire dai cinquant'anni, non convoca il senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo, mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri.




°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
09/01/2011 20:40

Magia delle candele


{Note Off}
Autore: inventato
Revisionato e corretto il: 02.10.08 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di minima grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Il libercolo non trova alcuna attinenza storica, scientifica o religiosa comunemente ritenuta per vera. Le informazioni trascritte sono state prese direttamente dall'originale e riproposte come nello scritto primario.
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx




Le Candeledi Alcibaus von Ville

La magia delle candele è quella piu semplice ed è appunto una delle forme di magia piu facile. Credo che anche voi, interessati lettori, la troverete certo appagante! Inanzi tutto, essa può essere praticata ovunque. L'importante, prima di attuarla, è purificarsi. Basta anche solo fare un bagno. Di solito chi utilizza arti magiche prima di iniziare un qualsivoglia atto di magia oltre alla purificazione del corpo, è solito dopo questa procedura purificare lo spazio in cui si trova, rilassarsi e raggiungere uno stato mentale positivo. Non bisogna mai utilizzare vecchie candele ma sceglierne sempre di nuove e altrettanto non usare quelle già rivolte a scopi differenti. Si deve sceglie un luogo silenzioso e lontano da fonti negative (questo vale anche per altre pratiche magiche).

I colori delle candele hanno uno scopo ed ogniuno di essi influenza una diversa sfera magica.


Colori e scopi:
Bianco:
la purezza,lo spirito la pace, rappresenta la dea ed è utilizzabile per tutti gli scopi.

Rosso:
passione e creatività.

Azzurro:
tranquillità, saggezza,onestà.

Arancione:
carica pubblica,prosperità,successo.

Marrone:
amicizia.

Verde:
salute e ricchezza.

Viola:
spiritualità.

Nero:
allontana le negatività.


Giallo:
intelletto.

Argento:
psichismo.



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
09/01/2011 20:41

La Danza
a cura di Sir Nataniel



Durante la nostra epoca e soprattutto nelle regioni cristiane la danza ha vita difficile, in quanto, a parte poche eccezioni, è avversata dalla Chiesa che vi ravvisa occasioni di peccato e di immoralità. In verità la Chiesa fu la sede dove, attraverso il canto, si rinnova la musica mediante un processo nel quale confluiscono e si fondono tradizioni diverse. E nella Chiesa, durante il primo millennio, si è anche danzato. Quando l'abitudine a danzare si diffuse fuori dai luoghi sacri e si affermò come esigenza spontanea di divertimento, la condanna ufficiale si fece sentire un pò dovunque.

Nonostante le condanne, le popolazioni europee, dentro o fuori le chiese, non hanno mai smesso di ballare. Mancò però, una spinta propulsiva abbastanza forte da far si che si mutassero i modelli coreici di prima: la danza non si innovò in alcun modo ma venne trasmessa come un tempo. Sotto questo aspetto, il Cristianesimo non ha modificato nelle masse il modo di concepire ed eseguire le danze. Nella coreutica del nostro periodo, infatti, ritroviamo tutti i temi delle civiltà precedenti: la fertilità, la morte, i raccolti, le nozze. Continuano ad esistere le danze mascherate, quelle in circolo e quelle legate in qualche modo ai riti magici. I veti della Chiesa esercitano un effetto solo sulle classi dominanti, che si associarono nel condannare le danze e nel respingerle. La cultura ufficiale, pertanto, non si impegna nemmeno per una loro revisione.

L'unica importante novità che si verificò è la nascita di una particolare figura: il giullare. I modi di definire il giullare, oggi, sono tanti: cantastorie, menestrello, esperto nell'arte del mimo, artista ambulante, musico e poeta, attore e perfino buffone. Ma la caratteristica che più interessa ai nostri fini è che egli è un danzatore, sia pure 'sui generis'. Il suo modo di ballare si discosta dalle forme della danza popolare. Egli esegue movimenti ampi ed esteticamente avvincenti. La sua danza non ha altra finalizzazione che l'intrattenimento ed il divertimento. Per questo motivo, acquisisce importanza l'agilità, la prestanza fisica, la bellezza. Il giullare balla da solo: essendo egli l'unico centro delle attenzioni, tende ad essere acrobata e professionista. Le sue esibizioni non hanno alcun nesso con la religione.

A livello popolare si possono documentare le danze macabre e cimiteriali: la gente si abbandona a balli spontanei in occasione di cerimonie funebri. Il senso della morte è molto sviluppato: accompagna le persone comuni in tutte le fasi della giornata e della vita. Si continua a praticare la danza di corteggiamento, nella forma consolidata della carola, recuperando una antica concezione secondo la quale, girando ritmicamente attorno ad una persona, se ne aveva (o poteva avere) il possesso. La carola è accompagnata dai canti: l'uso di strumenti musicali è rarissimo. La spiegazione è che, mentre la musica si adatta alla danza di coppia, il canto corale unisce anche spiritualmente il gruppo dei partecipanti alle figure elementari del ballo.



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
09/01/2011 20:43

{Note Off}
Autore: ??? - Commento e Note di Blackwitch
Revisionato e corretto il: 16.05.09 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di piccola grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Il liber è stato donato da uno storico ricercatore alla Biblioteca, di cui il nome è pervenuto solo sotto lo pseudonimo di "Alceste".
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx




Il Linguaggio Runico

La maggior parte delle iscrizioni runiche proviene dall’Europa nord-orientale in epoca medievale, ma la storia di questo alfabeto risale indietro nel tempo oltre gli inizi dell’Età di Mezzo fino alla Roma Imperiale, e si suppone che fosse ispirato all’ancor più antica cultura celtica del VI° secolo a.C.
L’alfabeto runico contava ventiquattro lettere. E’ conosciuto come futhark, dal valore delle prime sei lettere. In genere, le parole vengono scritte da sinistra a destra, ma nelle forme più antiche anche al contrario. Oppure alternando linee con direzioni opposte. In alcuni testi una singola lettera può essere capovolta, o invertita, apparentemente a volontà. A volte il testo non è diviso in singole parole.
Ciascuna runa ha un nome ed un significato. Di solito il nome inizia con il suono che la runa rappresentava. Così, ad esempio, la prima lettera del futhark, corrispondente alla f, che anticamente era detta feoh. In lingua norrena (nordico antico) il nome era fe. Entrambi i termini significano “denaro, proprietà”.

Infatti i Romani chiamavano Barbari gli abitanti di lingua germanica che vivevano ai confini del loro Impero poiché li consideravano illetterati. E seppure questo fosse sostanzialmente vero, alcune nazioni germano-scandinave, come Goti e Vichinghi, avevano in realtà un loro modo di scrivere attraverso l’alfabeto delle rune.
Ma non “scrivere” nel nostro senso del termine. Le rune sono lettere concepite per essere incise, scolpite; e non vanno “lette”, ma interpretate.
L’incisione è fatta su metallo, osso, pietra, ma nelle forme più antiche generalmente su legno, spesso sotto forma di piccole assicelle, ideali per incidere brevi messaggi con un coltello. Erano un metodo di comunicazione semplice, economico e conveniente.
Le lettere di questo alfabeto rifuggono le linee curve, difficili da incidere, e sono tracciate con segni verticali perpendicolari alla venatura del legno, e trattini inclinati. Erano anche evitati i tratti orizzontali per fare in modo che non si confondessero con la tessitura del legno. Se si sbagliava ad incidere, era sufficiente piallare l’errore e scolpire di nuovo le rune. La corrispondenza fonetica con le lettere dell'alfabeto romano e' approssimativa. Alcuni studiosi vedono nelle rune una scrittura magica o uno scritto di culto. Si ritiene che i nomi delle rune siano collegati alla religione dei popoli germanici ed abbiano un’importanza particolare. In effetti, le singole rune non erano utilizzate solamente per esprimere i corrispondenti suoni, ma anche i nomi completi. Così per scrivere “denaro” si poteva scrivere l’intera parola, ma anche la sola runa f.
Parlando di rune è il caso di ricordare che sono l’esigua espressione scritta di una cultura in cui tutta la conoscenza era tramandata attraverso la tradizione orale.

Si dice che i Druidi, sacerdoti e gelosi custodi di quella misteriosa cultura, rifiutarono ostinatamente di affidare alla scrittura tutti i loro segreti. Non troveremo mai un testo magico scritto per esteso con le rune, ma è nel tratto scolpito della runa stessa che scopriremo, condensato, il potere di quegli antichi sacerdoti che sono tra le figure più enigmatiche che la storia ci ha tramandato prestano per domande che entrano molto in profondità in quello che è il nostro destino, dove per destino intendiamo non qualcosa di ineluttabile a cui non possiamo far altro che arrenderci, bensì quella forza che è dentro di noi e che ci spinge in una determinata direzione perché possiamo realizzare noi stessi. Fin troppo spesso i problemi e le tensioni interiori sono causate dal voler remare contro la corrente del proprio divenire. Alle rune chiederemo quindi di farci conoscere meglio noi stessi per poter assecondare la nostra natura nel costruire il nostro futuro.



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
22/01/2011 16:43

{Note Off}
Autore: Platone
Revisionato e corretto il: 09.11.08 da Nataniel
Presentato in On come: libercolo di media grandezza

{Note On, scritte sulla seconda di copertina}
Il liber è opera di trascrizione dell'originale Crizia dell'autore filosofo Platone. L'opera di trascrizione è ad opera in pari parte dello Scriba sottoscritto e del Custode del Sapere, ser Shadow.
N.E. de Clairefont, anno Domini xxxx




Crizia
di Platone




TIMEO: Con quanta gioia, o Socrate, come se riposassi dopo un lungo cammino, mi libero ora volentieri del corso

del ragionamento.Quel dio, nato un tempo nella realtà e ora nato da poco a parole, io prego che ci garantisca la

conservazione, tra tutto ciò che è stato detto, di quelle cose che sono state dette con misura, e se, senza avvedercene,

dicemmo qualcosa di stonato su di loro, di infliggere la giusta pena. Ma giusta punizione è rendere intonato colui che

stona; affinché dunque in futuro facciamo discorsi corretti sull'origine degli dèi, preghiamo di fornirci la conoscenza,

potentissimo ed efficacissimo tra i rimedi. Dopo aver così pregato, lasciamo, conformemente a quanto convenuto, il

seguito del ragionamento a Crizia.

CRIZIA: Ebbene, Timeo, accetto; tuttavia la preghiera a cui anche tu all'inizio facesti ricorso, chiedendo

comprensione giacché avresti parlato di grandi cose, ebbene, Questa stessa preghiera la formulo anch'io adesso, ma

chiedo di ottenere una comprensione ancora maggiore per le cose che stanno per essere dette. Sebbene io sappia più o

meno che la richiesta è molto ambiziosa e che sto per farla in modo più rozzo di come avrei dovuto, tuttavia devo farla.

Del resto, quale uomo dotato di senno oserebbe affermare che le tue parole non sono state dette bene? D'altra parte il

fatto che ciò che sarà detto ha bisogno di maggior comprensione in quanto più difficile, questo in qualche modo bisogna

cercare di spiegarlo. Perché, caro Timeo, quando si dice qualcosa degli dèi agli uomini è più facile dare l'impressione di

parlarne esaurientemente che non quando a noi si parla dei mortali. Infatti l'inesperienza e la totale ignoranza degli

ascoltatori costituiscono un'ampia risorsa per chi intenda parlare di quelle cose sulle quali chi ascolta si trova in siffatta

condizione: quanto agli dèi poi conosciamo la nostra situazione. Per chiarire maggiormente ciò che vado dicendo,

seguitemi per questa via. Imitazione e rappresentazione bisogna che in qualche misura siano i discorsi pronunciati da

tutti noi: la riproduzione di immagini fatta dai pittori, atta a rappresentare i corpi divini e i corpi umani,

consideriamola per la facilità e la difficoltà a sembrare, a coloro che la guardano, un'imitazione soddisfacente, e

riconosceremo che terra e monti e fiumi e boschi, tutto il cielo e le cose che in esso sono e si muovono in un primo

momento potrebbero soddisfarci, se uno è in grado di riprodurre anche in piccola parte qualcosa per somiglianza; ma

poi, dal momento che di tali cose non sappiamo nulla di preciso, non esaminiamo né critichiamo le pitture, e ci

serviamo di un chiaroscuro indistinto e ingannevole per questi stessi oggetti; invece quando uno tenta di rappresentare i

nostri corpi, poiché percepiamo distintamente ciò che viene trascurato, per via della osservazione costante e familiare,

diventiamo giudici terribili di chi non renda in maniera completa tutte le somiglianze. Questa stessa cosa bisogna notare

che avviene anche per i discorsi, e cioè ci riteniamo soddisfatti se gli argomenti celesti e divini vengono esposti anche

con una piccola parte di verosimiglianza, mentre le cose mortali e umane le sottoponiamo ad attento esame. Ebbene se,

in ciò che stiamo dicendo ora improvvisando, non saremo capaci di rendere perfettamente quel che conviene, bisogna

avere indulgenza: perché si deve pensare che le cose mortali non sono facili ma difficili da rappresentare rispetto

all'aspettativa. Ho detto tutto questo, o Socrate, perché volevo ricordarvi questi fatti, e chiedere un'indulgenza non

minore, bensì maggiore per le cose che stanno per essere dette. Se dunque sembra che a buon diritto io chieda tale dono,

concedetemelo di buon grado.

SOCRATE: Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da parte nostra concesso anche

al terzo, a Ermocrate. è chiaro infatti che tra poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi; e

dunque per far sì che possa preparare un altro inizio e non sia costretto a pronunciarne uno uguale, parli convinto di

avere, per quel momento, la nostra indulgenza. Tuttavia, caro Crizia, ti espongo preventivamente il pensiero

dell'uditorio: il poeta che ti ha preceduto gode di una fama straordinaria presso questo uditorio, cosicché avrai bisogno

di una buona dose di indulgenza, se è tua intenzione poterti procurare questi stessi riconoscimenti.

ERMOCRATE: Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed effettivamente uomini privi

di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e,

rivolta l'invocazione a Peone e alle Muse, proclamare e celebrare le virtù degli antichi cittadini.

CRIZIA: Caro Ermocrate, tu sei stato assegnato all'ultima fila e hai un altro davanti a te, ed è per questo che sei

ancora pieno di baldanza.

Di che natura sia dunque questa impresa, presto sarà essa stessa a chiarirtelo: bisogna quindi prestare ascolto alle tue

esortazioni e ai tuoi incoraggiamenti e oltre agli dèi che tu hai menzionato dobbiamo invocare anche gli altri e

soprattutto Mnemosine. Infatti quello che, per così dire, è l'aspetto più importante delle nostre parole dipende

interamente da questa divinità: se abbiamo sufficiente memoria e avremo riferito più o meno ciò che sia stato detto dai

sacerdoti e riportato qui da Solone io sono più o meno sicuro che a questo uditorio daremo l'impressione di aver

svolto adeguatamente i nostri compiti.

Questo dunque è ciò che bisogna fare e non indugiare oltre.

Per prima cosa ricordiamoci che in totale erano novemila anni da quando, come si racconta, scoppiò la guerra

tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne di Eracle e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra

bisogna ora descriverla compiutamente. A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città, che sostenne la guerra

per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il comando dei re dell'isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, era

a quel tempo più grande della Libia e dell'Asia, mentre adesso, sommersa da terremoti, è una melma insormontabile

che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre.

Quanto ai numerosi popoli barbari e a tutte le stirpi greche che esistevano allora, per ciascuna lo sviluppo del discorso

nel suo svolgersi mostrerà ciò che accadde; quanto invece alla stirpe degli Ateniesi di allora e degli avversari contro i Platone Crizia


quali guerreggiarono, è necessario innanzi tutto esporre da principio la potenza di ciascuno e le loro costituzioni. E tra

questi stessi popoli dobbiamo dare la priorità, nel racconto, a quelli che abitarono qui.

Gli dèi infatti un tempo si divisero a sorte tutta quanta la terra secondo i luoghi - non per contesa: sarebbe difatti

un ragionamento non giusto pensare che gli dèi ignorino ciò che conviene a ciascuno di loro e che poi, conoscendo ciò

che conviene meglio ad altri, avessero cercato di procurarselo per se stessi a forza di contese - ottenendo dunque con

sorteggi di giustizia ciò che era loro gradito, prendevano dimora in quelle regioni e, dopo esservisi stabiliti, come i

pastori le greggi, ci allevavano beni propri e proprie creature, senza usare violenza sul corpo con la forza fisica, come i

pastori che conducono al pascolo le bestie sotto i colpi della sferza, ma nel modo in cui, in particolare, si tratta un

animale docile, guidando da poppa, attaccandosi all'anima con la persuasione come un timone, secondo il loro disegno:

in questo modo guidavano e governavano tutto il genere umano. Gli dèi, avendo dunque ottenuto in sorte chi questi

luoghi chi altri, li amministravano. Efesto e Atena, che hanno una natura comune, sia in quanto fratello e sorella

nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo fine per il loro amore della sapienza e dell'arte, così

ricevettero entrambi un unico lotto, questa regione, come congeniale e naturalmente adatta per la virtù e il pensiero, e

avendovi fatto nascere come autoctoni uomini virtuosi, stabilirono nella loro mente l'ordinamento politico; i loro

nomi sono conservati, ma le loro opere a causa delle distruzioni dei successori e per la lunghezza del tempo trascorso,

sono svanite. Infatti la stirpe che sempre sopravviveva, come si è detto precedentemente, rimaneva montanara e

illetterata, e conosceva solo per sentito dire i nomi dei signori di quella regione e, oltre a questi, poche delle loro opere.

Essi dunque, si accontentavano di assegnare questi nomi ai figli, ma ignoravano le virtù e le leggi dei predecessori,

tranne alcune oscure informazioni su ognuno di loro e trovandosi, essi e i loro figli per molte generazioni, sprovvisti

dei beni di necessità, rivolgendo la mente a ciò di cui mancavano, e a questo dedicando inoltre i loro discorsi, non si

curavano dei fatti avvenuti nei tempi precedenti e anticamente. Il racconto e la ricerca degli avvenimenti antichi infatti

entrano nelle città insieme con il tempo libero, quando si comincia a vedere qualcuno già rifornito dei beni necessari

per vivere, prima no.

Così i nomi degli antichi si sono conservati, senza il ricordo delle loro opere. Dico questo basandomi sul fatto che

tra le moltissime imprese che appunto si ricordano associate ai nomi di ciascuno, di Cecrope, Eretteo, Erittonio,

Erisittone e degli altri eroi anteriori a Teseo, tra queste imprese Solone dice che i sacerdoti, menzionando per

lo più i nomi di quei personaggi, raccontarono la guerra che si combatté a quel tempo, e allo stesso modo per i nomi

delle donne. Quanto poi all'immagine e alla statua della dea, dal momento che a quel tempo le occupazioni militari

erano comuni sia alle donne sia agli uomini, così , conformemente a quella consuetudine, essi avevano una statua votiva

della dea armata, prova che tutti gli esseri viventi che vivono associati, femmine e maschi, sono per natura capaci di

esercitare in comune la virtù che compete a ciascun sesso. A quel tempo dunque abitavano in questa regione le

altre classi di cittadini impegnate nei mestieri e a trarre nutrimento dalla terra, mentre la classe dei guerrieri, fin dal

principio distinta per volere di uomini divini, viveva separatamente, provvista di tutto ciò che fosse necessario per il

sostentamento e per l'educazione; nessuno di loro possedeva nulla di proprio, ma consideravano tutto in comune, e non

ritenevano giusto accettare nulla dagli altri cittadini che fosse più del nutrimento sufficiente ed esercitavano tutte le

attività descritte ieri, che sono state menzionate a proposito dei guardiani che abbiamo ipotizzato. Inoltre la storia

che veniva riportata sulla nostra regione era credibile e vera: per prima cosa, per quel che concerne i confini a quel

tempo arrivavano fino all'Istmo e, nella parte lungo il resto del continente, fino alle cime del Citerone e del

Parnete, scendevano poi avendo a destra l'Oropia e a sinistra fino al mare escludendo l'Asopo: questa

nostra regione superava per fertilità tutte le altre, per cui a quel tempo poteva anche nutrire un grande esercito

inoperoso nei lavori dei campi. Una valida prova del suo valore: ciò che ora resta di essa sostiene il confronto con

qualunque terra, perché produce di tutto, molti frutti e abbondanti pascoli per tutti gli animali. A quel tempo invece,

oltre alla fine qualità di quei frutti, ne produceva anche in grande abbondanza.

Come è possibile dunque questo e sulla base di quale residuo attuale della terra di allora può esser detto a ragione?

Essa, staccata interamente dal resto del continente, giace allungandosi fino al mare come la punta di un promontorio; il

bacino di mare che la comprende sprofonda rapidamente da ogni parte. Essendoci dunque stati molti e terribili

cataclismi in questi novemila anni - perché tanti sono gli anni che intercorrono da quel tempo fino a oggi - la parte di

terra che in questi anni e in tanti accidenti si è staccata dalle alture non accumulava sedimenti di terra di una certa

consistenza, come in altri luoghi e, scivolando giù in un processo continuo tutt'intorno, scompariva nella profondità del

mare; dunque, come avviene nelle piccole isole, a confronto con ciò che c'era a quel tempo, le parti che oggi restano

sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la terra intorno, ciò che di essa era grasso e

molle, è scivolata via, ed è rimasto soltanto, della regione, l'esile corpo. A quel tempo invece, quando era integra,

aveva per monti colline e levate e ricche di terra grassa, le pianure oggi dette di Felleo, e sui monti aveva vasti

boschi, dei quali sussistono testimonianze visibili ancora oggi. E di quei monti ve ne sono alcuni che attualmente

forniscono nutrimento soltanto alle api, ma non è poi moltissimo tempo che, ricavati dagli alberi tagliati via da qui per

fare da riparo in costruzioni imponenti, si conservavano ancora i tetti. Vi crescevano, numerosi, alti alberi coltivati, ma

fornivano anche pascoli inesauribili per il bestiame. Inoltre ogni anno godeva dell'acqua che veniva da Zeus, e non la

perdeva, come avviene ai nostri giorni, quando scompare defluendo via dalla terra spoglia fino al mare; poiché ne aveva

in abbondanza la accoglieva nel suo seno, la teneva in serbo nella terra argillosa e impermeabile, lasciando poi cadere

l'acqua dall'alto dalle alture fino alle cavità, offriva dappertutto abbondante flusso di sorgenti e di fiumi, e i santuari

che ancora oggi rimangono presso le sorgenti che esistevano un tempo sono una testimonianza del fatto che i racconti

odierni su di essa corrispondono a verità.

Queste dunque le condizioni naturali del resto del paese. E, come conviene, era tenuta in bell'ordine, da veri

agricoltori, che facevano proprio questo mestiere, amanti del bello e dotati di buone qualità, disponevano di terra

eccellente, acqua in notevole abbondanza e, su quella terra, godevano di stagioni decisamente temperate. Ed ecco come

era abitata a quel tempo la città. Innanzi tutto la parte dell'acropoli non era allora come è oggi. Ci fu infatti una sola

notte di pioggia, in cui piovve più di quanto la terra potesse sopportare, che l'ha liquefatta tutt'intorno e resa oggi

terribilmente spoglia, e nello stesso tempo vi furono terremoti e una straordinaria alluvione, la terza prima della

catastrofe di Deucalione; ma precedentemente, in un altro tempo, per grandezza si estendeva fino all'Eridano e

all'Ilisso, abbracciava al suo interno la Pnice e comprendeva, dalla parte opposta rispetto alla Pnice, il monte

Licabetto, ed era tutta di terra e, salvo che in un piccolo tratto sulla sommità, pianeggiante. Le zone periferiche,

sotto i fianchi stessi dell'Acropoli, erano abitate dagli artigiani e dagli agricoltori che lavoravano la terra circostante; la

zona superiore la abitava, intorno al santuario di Atena e di Efesto, la sola classe dei guerrieri, i quali l'avevano

circondata da un muro come il giardino di un'unica dimora. Abitavano i fianchi di questa rivolti a settentrione, in

dimore comuni. Vi avevano allestito mense per i mesi invernali; tutto ciò che si addiceva alla vita in comune, per le

loro costruzioni e per i santuari, essi lo possedevano, fatta eccezione per l'oro e l'argento - di questi metalli infatti non

facevano assolutamente uso, e perseguivano piuttosto una via di mezzo tra sfarzo arrogante e illiberale spilorceria,

abitando case dignitose, nelle quali essi stessi e i figli dei loro figli invecchiavano e che lasciavano via via in eredità ad

altri uguali a loro -, i fianchi esposti a sud invece, quando abbandonavano giardini, ginnasi e mense, ad esempio

durante la stagione estiva, li utilizzavano per questi scopi. C'era una sola fonte, nel luogo dove oggi è l'acropoli, della

quale, inaridita a causa dei terremoti, restano attualmente piccoli rivoli tutt'intorno, e che invece agli uomini di quel

tempo forniva, a tutti, un flusso abbondante, ed era temperata sia in inverno sia in estate. Questo dunque il modo in cui

abitavano la città, fungendo da custodi dei loro propri concittadini e d'altra parte da capi, liberamente accolti, degli altri

Greci, sempre però vegliando che al loro interno fosse quanto più possibile lo stesso in tutti i tempi il numero degli

uomini e delle donne, di quelli già in grado di combattere e di quelli che lo fossero ancora, circa ventimila al

massimo. Tali dunque essendo questi uomini e in tal modo sempre amministrando secondo giustizia la propria città

e la Grecia, erano stimati in tutta l'Europa e in tutta l'Asia per la bellezza del corpo e per ogni tipo dì virtù dell'animo,

ed erano fra tutti gli uomini del loro tempo i più famosi. Quanto poi ai loro avversari, quali fossero le loro condizioni e

come andassero le cose in origine, se in noi non è spento il ricordo di ciò che udimmo quando eravamo ancora bambini,

ve lo spiegheremo: e ciò che sappiamo sia in comune con gli amici.

è d'uopo tuttavia, prima di iniziare il discorso, fornire ancora una breve chiarificazione, perché non vi sorprendiate

di sentire pronunciare nomi greci per uomini barbari: ne apprenderete la causa. Solone, poiché aveva in mente di usare

questo racconto per la sua poesia, cercando informazioni sul senso di questi nomi, trovò che quegli Egiziani che per

primi avevano scritto questi nomi, li avevano tradotti nella propria lingua, e di nuovo egli, a sua volta, recuperando il

significato di ciascun nome, li trascrisse trasferendoli nella nostra lingua. E questi scritti appunto si trovavano in

possesso di mio nonno, attualmente sono ancora in mio possesso, e me ne sono molto occupato quando ero un

ragazzo. Se dunque udrete tali nomi, simili a questi nostri, non vi sembri strano: ne conoscete la ragione. Ed ecco

dunque qual era press'a poco l'inizio di questo lungo racconto.

Come si è detto prima, a proposito del sorteggio degli dèi, che si spartirono tutta la terra, in lotti dove più grandi

dove più piccoli, e istituirono in proprio onore offerte e sacrifici, così anche Poseidone, che aveva ricevuto in sorte

l'isola di Atlantide, stabilì i propri figli, generati da una donna mortale, in un certo luogo dell'isola.

Vicino al mare, ma nella parte centrale dell'intera isola, c'era una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e

garanzia di prosperità, vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa cinquanta stadi, c'era un

monte, di modeste dimensioni da ogni lato. Questo monte era abitato da uno degli uomini nati qui in origine dalla terra,

il cui nome era Euenore e che abitava lì insieme a una donna, Leucippe. Generarono un'unica figlia, Clito. La fanciulla

era ormai in età da marito, quando la madre e il padre morirono. Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, sì unì

con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e

di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al

tornio, a partire dal centro dell'isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l'isola fosse inaccessibile agli uomini: a

quel tempo infatti non esistevano né imbarcazioni né navigazione. Egli stesso poi abbellì facilmente, come può un dio,

l'isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte,

l'altra fredda; fece poi produrre dalla terra nutrimento d'ogni sorta e in abbondanza. Generò cinque coppie di figli

maschi, li allevò e dopo aver diviso in dieci parti tutta l'isola di Atlantide, al figlio nato per primo dei due più vecchi

assegnò la dimora della madre e il lotto circostante, che era il più esteso e il migliore, e lo fece re degli altri, gli altri li

fece capi e a ciascuno diede potere su un gran numero di uomini e su un vasto territorio. Diede a tutti dei nomi, a colui

che era il più anziano e re assegnò questo nome, che è poi quello che ha tutta l'isola e il mare, chiamato Atlantico perché

il nome di colui che per primo regnò allora era appunto Atlante; il fratello gemello nato dopo di lui, che aveva

ricevuto in sorte l'estremità dell'isola verso le Colonne di Eracle, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica dal nome

di quella località, in greco era Eumelo, mentre nella lingua del luogo Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la

denominazione a questa regione. Ai due figli che nacquero nel secondo parto Poseidone diede, al primo, il nome

Amfere e al secondo il nome Euemone; ai figli di terza nascita diede nome Mnesea, a quello nato per primo, Autoctone

a quello nato dopo; dei figli di quarta nascita Elasippo fu il primo e Mestore il secondo; ai figli di quinta nascita fu dato

il nome di Azae al primo, di Diaprepe al secondo. Tutti costoro, essi stessi e i loro discendenti, per molte generazioni

abitarono qui, esercitando il comando su molte altre isole di quel mare, ed inoltre, come si disse anche prima, Platone Crizia



governando regioni al di qua, fino all'Egitto e alla Tirrenia.

La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorata, e poiché era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio

dei suoi figli il potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in quantità tale quante mai

ve n'erano state prima in nessun dominio di re, né mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d'altra parte potendo

disporre di tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del paese. Infatti molte risorse, grazie al loro

predominio, provenivano loro dall'esterno, ma la maggior parte le offriva l'isola stessa per le necessità della vita: in

primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si

conosce solo il nome - a quel tempo invece la sostanza era più di un nome, l'oricalco, estratto dalla terra in molti

luoghi dell'isola, ed era il più prezioso, a parte l'oro, tra i metalli che esistevano allora - sia tutto ciò che le foreste

offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e nutriva poi a sufficienza animali domestici e

selvaggi.

In particolare era qui ben rappresentata la specie degli elefanti. Difatti i pascoli per gli altri animali, per quelli che

vivono nelle paludi, nei laghi e nei fiumi e così per quelli che pascolano sui monti e nelle pianure, erano per tutti

abbondanti e altrettanto lo erano per questo animale, nonostante sia il più grosso e il più vorace. A ciò si aggiunga che

le essenze profumate che la terra produce ai nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da fiori o

da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora, forniva il frutto coltivato e quello secco che ci fa

da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo per fare il pane - tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo

cereali - e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti e oli profumati, il frutto dalla dura scorza, usato per

divertimento e per piacere, difficile da conservare, così quelli che serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi

è affaticato dalla sazietà: tali prodotti l'isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli e meravigliosi, in

una abbondanza senza fine. Prendendo dunque dalla terra tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali,

i porti, i cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente modo.

Le cinte di mare che si trovavano intorno all'antica metropoli per prima cosa le resero praticabili per mezzo di ponti,

formando una via all'esterno e verso il palazzo reale. Il palazzo reale lo realizzarono fin da principio in questa stessa

residenza del dio e degli antenati, ricevendolo in eredità l'uno dall'altro, e aggiungendo ornamenti a ornamenti

cercavano sempre di superare, per quanto potevano, il predecessore, finché realizzarono una dimora straordinaria a

vedersi per la grandiosità e la bellezza dei lavori.

Realizzarono, partendo dal mare, un canale di collegamento largo tre plettri, profondo cento piedi e lungo

cinquanta stadi fino alla cinta di mare più esterna: crearono così il passaggio dal mare fino a quella cinta, come in un

porto, dopo aver formato un'imboccatura sufficiente per l'ingresso delle navi di maggiori dimensioni. Inoltre tagliarono

le cinte di terra che dividevano tra loro le cinte di mare all'altezza dei ponti, tanto da poter passare, a bordo di una sola

trireme, da una cinta all'altra, e coprirono i passaggi con tetti, in modo tale che la navigazione avvenisse al di sotto: e

infatti le sponde delle cinte di terra si elevavano sufficientemente sul livello del mare. La cinta maggiore, con la quale

era in comunicazione il mare, era di tre stadi di larghezza e di pari larghezza era la cinta di terra a ridosso; delle due

cinte successive quella di mare era larga due stadi, quella di terra aveva ancora una volta una larghezza pari alla cinta di

mare; di uno stadio era invece la cinta di mare che correva intorno all'isola stessa, nel mezzo. L'isola, nella quale si

trovava la dimora dei re, aveva un diametro di cinque stadi. Questa, tutt'intorno, e le cinte, e il ponte, largo un plettro,

li circondarono da una parte e dall'altra con un muro di pietra, facendo sovrastare il ponte, da entrambe le parti, da torri

e porte, lungo i passaggi che portavano al mare; tagliarono la pietra tutt'intorno, al di sotto dell'isola centrale, e sotto le

cinte, nella parte esterna e in quella interna, bianca, nera, rossa, e mentre tagliavano creavano all'interno due

profondi arsenali la cui copertura era di quella stessa pietra. Quanto alle costruzioni, alcune erano semplici, mentre altre

le realizzavano variopinte, mescolando, per il piacere della vista, le pietre: e così rendevano loro una grazia naturale;

rivestirono tutto il perimetro del muro che correva lungo la cinta esterna con il bronzo, servendosene a guisa di

intonaco, mentre quello della cinta interna lo spalmarono con stagno fuso, e infine quello che circondava la stessa

acropoli con oricalco dai riflessi di fuoco.

Il palazzo reale, all'interno dell'acropoli, era sistemato nel seguente modo. Al centro il santuario, consacrato in

quello stesso luogo a Clito e a Poseidone, era lasciato inaccessibile, circondato da un muro d'oro, e fu là che in origine

concepirono e misero al mondo la stirpe dei dieci capi delle dinastie reali; ed era ancora là che ogni anno venivano, da

tutte e dieci le sedi del paese, le offerte stagionali per ognuno di quelle divinità. Il tempio dello stesso Poseidone era

lungo uno stadio, largo tre plettri, proporzionato in altezza a queste dimensioni, e aveva nella figura un che di

barbarico. Rivestirono d'argento tutta la parte esterna del tempio, ad eccezione degli acroterii, e gli acroterii erano

d'oro; quanto agli interni, il soffitto era a vedersi interamente d'avorio, variegato d'oro, argento e oricalco; tutte le altre

parti, pareti, colonne e pavimento, le rivestirono di oricalco. Vi collocarono statue d'oro, il dio in piedi su un carro,

auriga di sei cavalli alati, egli stesso tanto grande da toccare con la testa il soffitto del tempio, tutt'intorno cento Nereidi

su delfini - perché tante pensavano allora che fossero le Nereidi - e vi erano molte altre statue, doni votivi di

privati. Intorno al santuario, all'esterno, si trovavano immagini d'oro di tutti, le donne e quei re che nacquero dai dieci, e

molte altre offerte votive di grandi dimensioni, di re e privati, originari della città stessa e di altri paesi esterni, quelli sui

quali governavano. L'altare, per la grandezza e la raffinatezza del lavoro, era in armonia con questo apparato, e la

reggia, allo stesso modo, ben rispondeva da una parte alla grandezza dell'impero, dall'altra allo splendore del tempio

stesso. Quanto alle fonti, quella della sorgente di acqua fredda e quella della sorgente di acqua calda, di generosa

abbondanza, ognuna straordinariamente adatta all'uso per la gradevolezza e la virtù delle acque, le utilizzavano

disponendo intorno abitazioni e piantagioni di alberi adatte a quelle acque e installandovi intorno cisterne, alcune a cielo Platone Crizia


aperto, altre coperte usate in inverno per i bagni caldi, da una parte quelle del re, dall'altra quelle dei privati, altre ancora

per le donne, altre per i cavalli e per le altre bestie da soma, attribuendo a ciascuna la decorazione appropriata. L'acqua

che sgorgava da qui la portavano fino al bosco sacro di Poseidone, alberi d'ogni sorta, che avevano, grazie alla virtù

della terra, bellezza ed altezza straordinarie, e facevano scorrere l'acqua fino ai cerchi esterni attraverso canalizzazioni

costruite lungo i ponti. E qui erano stati costruiti molti templi, in onore di molte divinità, molti giardini e molti ginnasi,

alcuni per gli uomini, altri per i cavalli, a parte, in ognuna delle due isole circolari. Inoltre, al centro dell'isola

maggiore, per sé si erano riservati un ippodromo, largo uno stadio e tanto lungo da permettere ai cavalli di percorrere

per la gara l'intera circonferenza. Intorno a questo, dall'una e dall'altra parte, vi erano costruzioni per le guardie, per la

gran massa dei dorifori; ai più fedeli era stato assegnato il presidio nella cerchia minore, che si trovava più vicino

all'acropoli, mentre a coloro che fra tutti si distinguevano per fedeltà erano stati dati alloggi all'interno dell'acropoli,

vicino ai re. Gli arsenali erano pieni di triremi e delle suppellettili necessari alle triremi, tutte preparate in quantità

sufficiente. E nel modo seguente erano poi sistemate le cose intorno alla residenza dei re: per chi attraversava i porti

esterni, in numero di tre, a partire dal mare correva in cerchio un muro, distante cinquanta stadi in ogni parte dalla cinta

maggiore e dal porto. Tale muro si chiudeva in se stesso in uno stesso punto, presso l'imboccatura del canale dalla parte

del mare. Tutta questa estensione era coperta di numerose e fitte abitazioni, mentre il canale e il porto maggiore

pullulavano di imbarcazioni e di mercanti che giungevano da ogni parte e che, per il gran numero, riversavano giorno e

notte voci e tumulto e fragore d'ogni genere.

Abbiamo dunque riferito ora press'a poco quanto a quel tempo si disse della città e dell'antica dimora; cerchiamo

allora di richiamare alla mente quale fosse la natura del resto del paese e come fosse organizzato. In primo luogo tutto

quanto il territorio si diceva che fosse alto e a picco sul mare, mentre tutt'intorno alla città vi era una pianura, che

abbracciava la città ed era essa stessa circondata da monti che discendevano fino al mare, piana e uniforme, tutta

allungata, lunga tremila stadi sui due lati e al centro duemila stadi dal mare fin giù. Questa parte dell'intera isola era

rivolta a mezzogiorno e al riparo dai venti del nord. I monti che la circondavano erano rinomati a quel tempo, in

numero, grandezza e bellezza superiori ai monti che esistono oggi, per i molti villaggi ricchi di abitanti che vi si trovano

e d'altra parte per i fiumi, i laghi, i prati, capaci di nutrire ogni sorta di animali domestici e selvaggi, per le foreste

numerose e varie, inesauribili per l'insieme dei lavori e per ciascuno in particolare. Questa pianura in un lungo lasso di

tempo, per opera della natura e di molti re, prese dunque la seguente sistemazione. Aveva, come ho già detto, la forma

di un quadrilatero, rettilineo per la maggior parte, e allungato, ma là dove si discostava dalla linea retta lo raddrizzarono

per mezzo di un fossato scavato tutt'intorno: ciò che si dice della profondità, larghezza e lunghezza di questo fossato

non è credibile, che cioè opera realizzata dalla mano dell'uomo potesse essere di tali dimensioni, oltre agli altri duri

lavori che aveva comportato. Bisogna tuttavia riferire ciò che udimmo: ebbene, era stata scavata per una profondità di

un plettro, mentre la sua larghezza era in ogni punto di uno stadio, e poiché era stata scavata tutto intorno alla pianura,

ne risultava una lunghezza di diecimila stadi. Riceveva i corsi d'acqua che discendevano dai monti e girava intorno alla

pianura, arrivando da entrambi i lati fino alla città, da lì poi andava a gettarsi nel mare. Dalla parte superiore di questo

fossato canali rettilinei, larghi circa cento piedi, tagliati attraverso la pianura, tornavano a gettarsi nel fossato presso il

mare, a una distanza l'uno dall'altro di cento stadi. Ed era per questa via dunque che facevano scendere fino alla città il

legname dalle montagne e su imbarcazioni trasportavano verso la costa altri prodotti di stagione, scavando, a partire da

questi canali passaggi navigabili e tagliandoli trasversalmente l'uno con l'altro e rispetto alla città. Due volte l'anno

raccoglievano i prodotti della terra, in inverno utilizzando le piogge, in estate irrigando tutto ciò che offre la terra con

l'acqua attinta dai canali. Quanto al numero degli uomini abitanti la pianura che fossero utili per la guerra, era stato

stabilito che ogni lotto fornisse un capo: la grandezza di un lotto era di dieci stadi per dieci e in tutto i lotti erano

sessantamila; per quel che concerne invece il numero degli uomini che venivano dalle montagne e dal resto del paese,

si diceva che fosse infinito e tutti, secondo le località e i villaggi, venivano poi ripartiti in questi distretti, sotto il

comando dei loro capi. Era dunque stabilito che il comandante fornisse per la guerra la sesta parte di un carro da

combattimento fino a raggiungere il numero di diecimila carri, due cavalli e i relativi cavalieri, inoltre un carro a due

cavalli senza sedile, che avesse un soldato capace all'occasione di combattere a piedi, munito di un piccolo scudo, e

assieme al combattente un auriga per entrambi i cavalli; due opliti, due arcieri e due frombolieri, tre soldati armati alla

leggera che lanciano pietre e tre lanciatori di giavellotto, quattro marinai per completare l'equipaggio di milleduecento

navi. Questa era dunque l'organizzazione militare della città regia; diversa invece quella in ognuna delle altre nove

province, che tuttavia sarebbe troppo lungo spiegare.

Quanto alle magistrature e alle cariche pubbliche, furono così ordinate fin da principio. Ciascuno dei dieci re

esercitava il comando nella propria parte e nella sua città sugli uomini e sulla maggior parte delle leggi, punendo e

mettendo a morte chiunque volesse; ma il potere che avevano l'uno sull'altro e i rapporti reciproci erano regolati dalle

prescrizioni di Poseidone, così come li avevano tramandati la tradizione e le lettere incise dai primi re su una stele di

oricalco, che era posta nel centro dell'isola, nel santuario di Poseidone, dove ogni cinque anni e talvolta, alternando,

ogni sei si riunivano, assegnando uguale importanza all'anno pari e all'anno dispari. In tali adunanze deliberavano degli

affari comuni, esaminavano se qualcuno avesse trasgredito qualche legge e formulavano il giudizio. Quando dovevano

giudicare, prima si scambiavano tra loro assicurazioni secondo il seguente rituale.

Alcuni tori venivano lasciati liberi nel santuario di Poseidone, e i dieci re, rimasti soli, dopo aver rivolto al dio

la preghiera di scegliere la vittima che gli fosse gradita, davano inizio alla caccia, armati non di armi di ferro, ma solo di

bastoni e di lacci; il toro che riuscivano a catturare, lo conducevano davanti alla colonna e lì , sulla cima di questa, lo

sgozzavano proprio sopra l'iscrizione.

Sulla stele, oltre alle leggi, v'era inciso un giuramento che lanciava terribili anatemi contro i trasgressori. Così ,

compiuti i sacrifici conformemente alle loro leggi, quando passavano a consacrare tutte le parti del toro, mescolavano

in un cratere il sangue e ne versavano un grumo per ciascuno, mentre il resto, purificata la stele, lo ponevano accanto

al fuoco; dopodiché, attingendo con coppe d'oro dal cratere e offrendo libagioni sul fuoco, giuravano di giudicare

conformemente alle leggi scritte sulla stele, di punire chi in precedenza tali leggi avesse trasgredito e, d'altra parte, di

non trasgredire per precisa volontà in avvenire nessuna delle norme dell'iscrizione, che non avrebbero governato né

obbedito a chi governasse se non esercitava il suo comando secondo le leggi del padre. Ciascuno di loro, dopo aver

innalzato queste preghiere, per sé e per la propria discendenza, beveva e consacrava la coppa nel santuario del dio, poi

attendeva al pranzo e alle occupazioni necessarie, e quando scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era

consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella quant'altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici

per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era completamente spento, venivano giudicati e

giudicavano se uno di loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio,

all'apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d'oro che dedicavano in ricordo insieme alle vesti. Vi erano

altre leggi, numerose e particolari, che concernevano i privilegi di ciascun re, tra le quali le più importanti: che non

avrebbero mai impugnato le armi l'uno contro l'altro e che si sarebbero aiutati vicendevolmente, e se uno di loro in

qualche città tentava di cacciare la stirpe regia, avrebbero deliberato in comune, come i loro antenati, le decisioni che

giudicassero opportuno prendere riguardo alla guerra e alle altre faccende, affidando il comando supremo alla stirpe di

Atlante. Un re non era padrone di condannare a morte nessuno dei consanguinei senza il consenso di più della metà dei

dieci. Tanta e tale potenza, viva allora in quei luoghi, il dio raccolse e diresse poi contro queste nostre regioni, dietro

siffatto pretesto, come vuole la tradizione. Per molte generazioni, finché fu abbastanza forte in loro la natura divina,

erano obbedienti alle leggi e bendisposti nell'animo verso la divinità che aveva con loro comunanza di stirpe: avevano

infatti pensieri veri e grandi in tutto, usando mitezza mista a saggezza negli eventi che di volta in volta si presentavano

e nei rapporti reciproci. Di conseguenza, avendo tutto a disdegno fuorché la virtù, Stimavano poca cosa i beni che

avevano a disposizione, sopportavano con serenità, quasi fosse un peso, la massa di oro e delle altre ricchezze, e non

vacillavano, ebbri per effetto del lusso e senza più padronanza di sé per via della ricchezza; al contrario, rimanendo

vigili, vedevano con acutezza che tutti questi beni si accrescono con l'affetto reciproco unito alla virtù, mentre si

logorano per eccessivo zelo e stima e con loro perisce anche la virtù.

Ebbene, come risultato di un tale ragionamento e finché persisteva in loro la natura divina, tutti i beni che abbiamo

precedentemente enumerato si accrebbero. Quando però la parte di divino venne estinguendosi in loro, mescolata più

volte con un forte elemento di mortalità e il carattere umano ebbe il sopravvento, allora, ormai incapaci di sostenere

adeguatamente il carico del benessere di cui disponevano, si diedero a comportamenti sconvenienti, e a chi era capace

di vedere apparivano laidi, perché avevano perduto i più belli tra i beni più preziosi, mentre agli occhi di coloro che

non avevano la capacità di discernere la vera vita che porta alla felicità allora soprattutto apparivano bellissimi e beati,

pieni di ingiusta bramosia e di potenza. Tuttavia il dio degli dèi, Zeus, che governa secondo le leggi, poiché poteva

vedere simili cose, avendo compreso che questa stirpe giusta stava degenerando verso uno stato miserevole, volendo

punirli, affinché, ricondotti alla ragione, divenissero più moderati, convocò tutti gli dèi nella loro più augusta dimora, la

quale, al centro dell'intero universo, vede tutte le cose che partecipano del divenire, e dopo averli convocati disse...






°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
OFFLINE
Post: 1.260
Città: RIETI
Età: 39
Sesso: Maschile
19/02/2012 22:52

L'arte della Pittura


Note off: il testo contiene riferimenti storici e naturali per capire quindi il testo in toto è necessario possedere le skills conoscenze storiche e conoscenze naturali al livello I (assieme). Chi non le possedesse potrà comunque avere, dopo la lettura, un quadro completo dell’arte pittorica medioevale.
Revisionato da Inish (che ringrazio)

Note on: libro di medie dimensioni, autore ignoto.






La pittura è l'arte che consiste nell'applicare dei pigmenti a un supporto come la pergamena, la seta, il legno, il vetro o un muro. Essendo i pigmenti essenzialmente solidi, è necessario utilizzare un legante, che li porti a uno stadio liquido, più fluido o più denso, e un collante, che permetta l'adesione duratura al supporto.
Chi dipinge è detto pittore o pittrice.
Il risultato è un'immagine che, a seconda delle intenzioni dell'autore, esprime la sua percezione del mondo o una libera associazione di forme o un qualsiasi altro significato, a seconda della sua creatività, del suo gusto estetico e di quello della società di cui fa parte.



BREVE INTRODUZIONE STORICA



Arte egizia
Nell'arte egizia le pitture realizzate nelle tombe, in rapporto alla
prosecuzione della vita del defunto nel mondo ultraterreno. Altre pitture sono realizzate per la celebrazione delle imprese dei faraoni. La pittura si mescola al bassorilievo, spesso colorato e dipinto, e alla scrittura geroglifica. Le linee sono rigide e le figure statiche, sempre rappresentate di profilo ad eccezione degli occhi e delle spalle che sono frontali. Tra i colori utilizzati dagli artisti egizi compare già dall'Antico Regno il (blu egizio), uno dei pigmenti artificiali più antichi prodotti dall'uomo. Il suo uso si estese ben oltre i confini geografici e temporali dell'Antico Egitto, diventando uno dei pigmenti più affermati dell'antichità.
Nell'arte cretese sono arrivate fino a noi decorazioni e scene di danze e di giochi rituali.
Anche nell'arte etrusca si osserva una maggiore dinamicità, una moltitudine di linee curve rendono la figura più naturale.
Pittura greca
Il greci furono la prima popolazione a portare un pieno svolgimento all'arte pittorica, ponendosi il problema della luce, dello spazio, del colore, delle variazioni di tono e degli effetti della tecnica (smalti, impasto, velature...).
La grandissima maggioranza delle pitture greche ci è nota solo da frammenti, ricostruzioni a partire dalle fonti letterarie, riflessi in altre culture (come quelle etrusca) .
Pittura romana
La pittura romana è una delle scuole pittoriche che meglio si sono tramandate, nella generale rovina della pittura antica. I romani assimilarono in larga parte dall'altissima civiltà pittorica greca, imitandone i modelli e le tecniche. Dalla stilizzazione al naturalismo, seguendo lo spunto dell’arte greca, l’arte e la pittura Romana, soprattutto in forma musiva c’è giunta in tutta la sua parabola conclusasi nella rinuncia alla realtà per l’iconografia, lo sviluppo di una nuova simbologia Cristiana e l’abbandono della profondità e della luce precedentemente acquisita.
Tecniche:
Pittura parietale (affresco)
Per pittura parietale, si intende un dipinto realizzato a fresco che veniva eseguito su intonaco di calce fresca con colori macinati e diluiti in acqua. La pittura a tempera veniva eseguita diluendo i colori in solventi collosi e gommosi, con il rosso d'uovo e la cera. La pittura ad encausto, invece, la si otteneva con colori miscelati con la cera.
Pittura su tavola
La pittura su tavola era sicuramente praticata in tutto il Mediterraneo e consisteva nel dipingere su d’un piano ligneo più o meno trasportabile.
Pittura oggi
La nostra pittura si sviluppa a partire dalle forme proprie dell'arte tardoantica: immagini sempre più ieratiche e simboliche, riflesso di una sempre più profonda concezione della spiritualità. Le immagini sono spesso tratte dal repertorio cristiano, la cui spiritualità condiziona in maniera fondamentale i soggetti.. È con Bisanzio che va definendosi sempre di più l’attuale pittura: l'arte bizantina da un lato è solo un aspetto dell'arte, ma dall'altro ne è l'asse portante. Le sue forme, canonizzate in seguito allo scisma iconoclasta dal secondo concilio di Nicea del 787 furono quelle universalmente diffuse in tutto il mondo cristiano, seppure con accezioni regionali diverse di volta in volta, in oriente come in occidente. La pittura si delinea in occidente come mera illustrazione dell'evento biblico. Le immagini delle chiese diventano biblia pauperum, la bibbia dei poveri, nelle quali gli illetterati possono comprendere ciò che l'analfabetizzazione rende loro impossibile leggere nelle Scritture. La pittura delle chiese o delle iconostasi diventa quindi una decorazione degna di rispetto, ma non propriamente "arte sacra" come invece rimane l'icona in oriente. Qui le sante immagini vengono venerate come Presenza in assenza della persona rappresentata: per questo gli orientali ancora oggi venerano grandemente le immagini baciandole e inchinandovisi davanti.
Pur con una diversità basilare di interpretazione dell'immagine dipinta, l'oriente e l'occidente restano uniti nelle forme pittoriche fino alla fine del Duecento, influenzandosi a vicenda, vivendo rinascenze del classico o evoluzioni di tipo più simbolico.

Classificazione delle tecniche pittoriche in base al loro supporto

- Sulle pareti abbiamo l'affresco e l'encausto.
- Su tavola abbiamo la pittura a tempera.
- Su carta abbiamo il pastello, la pittura a tempera, inchiostri con aggiunta di pigmenti (per miniature) e lapis.



I COLORI




Studiando i colori usati dai pittori è bene cercare di comprendere come questi vengano utilizzati e percepiti.
I requisiti più importanti sono due: luminosità ed intensità.
I colori, quindi, sono applicati con una forte saturazione, senza sfumature e mezzitoni, per sottolineare il potere espressivo, necessario a risaltare il significato simbolico.
Trattando soprattutto temi religiosi si tende alla ricerca della luce, dell’oro e delle gemme, metafore stesse del valore artistico. Era la “metafisica della luce“che, vedeva il mondo come emanazione di Dio - luce suprema - attribuendo così alla luce un valore non solo mistico e spirituale, ma pure estetico.
I colori hanno un forte significato simbolico nel nostro tempo.
Basta ricordare, ad esempio, come ogni culto prescriva per i paramenti d’altare e per le vesti del celebrante colori specifici, peculiari per ogni periodo dell’anno (a volte) e per varie occasioni rituali.
Nello spazio divino il colore rivelava la presenza di Dio, i colori infatti sono il frutto dell’interazione fra luce e oscurità.
Taluni ritengono addirittura che la luce filtrando attraverso le vetrate colorate di alcuni luoghi sacri avesse proprietà curative.


PIGMENTI BLU



I pigmenti blu sono essenzialmente due: l'oltremare, il più prezioso (ottenuto dai lapislazzuli), e l'azzurrite.
Nella pittura murale, il blu viene usato generalmente per gli sfondi, con lo stesso valore simbolico che ha l’oro nelle tavole.

Oltremare
L'alchimia ha avuto un ruolo importante nella scoperta e nell'utilizzo dei colori nella pittura. Il più noto di questi nuovi pigmenti è il blu oltremare, ottenuto dal minerale blu lapislazzuli. Già usata come ornamento dagli Egizi questa pietra si trova soprattutto in Oriente.
Il nome conferma che il pigmento deve essere importato da molto lontano. La distanza e il difficile procedimento preparatorio lo rendono molto costoso e, quindi, anche molto apprezzato.
Proprio per il suo costo, infatti, è considerato uno dei colori più ricchi e preziosi, associato al rosso porpora e all'oro.
I pittori lo usano con parsimonia sostituendolo spesso con un altro pigmento, più economico, l'azzurrite (ad esempio per gli sfondi e le campiture).

Azzurrite
Questo blu meno caro (ma non certo a buon mercato) è ricavato dal minerale azzurrite. Già usato dai Romani (Plinio lo chiamava "Lapis armenius"), da noi è conosciuto come"azzurro d'Alemanna", mentre i sassoni lo indicano come Bergblau, "l'azzurro montagna”.
I due pigmenti hanno un aspetto molto simile: per distinguerli si scalda un frammento del minerale finché non diventava incandescente, raffreddandosi l'azzurrite diventa nera e il lapislazzuli no.
La differenza del costo favorisce le frodi.
Macinata molto, finemente, l'azzurrite produce una tonalità di celeste pallido con una punta di verde, adatta per i cieli, ma molto meno bella della corposità purpurea dell'oltremare. Per una tonalità più scura bisogna macinarla in modo più grossolano, e questo rende il pigmento difficile da applicare e un po' traslucido; è necessaria quindi una colla animale, piuttosto che una tempera all'uovo, perché queste particelle più grosse si amalgamino bene, inoltre sono necessarie parecchie mani per ottenere un colore coprente saturo. Il risultato può essere molto bello, perché ogni granello riluce come un microscopico gioiello.

Altri azzurri

Altre fonti di azzurro per gli artisti sono le tinture: guado e indaco che hanno un tono verdastro o nerastro, non molto gradevole, ma più piacevole quando mischiato col bianco.

ROSSO
Sul prezioso sfondo luminoso dell’oro, il rosso è il colore che, con all’azzurro oltramare, domina più frequentemente le composizioni cromatiche della pittura. Azzurro e rosso hanno il primato dell’intensità e della brillanza rispetto ai colori che si possono ottenere dalle terre ma, mentre la fortuna del primo, è piuttosto recente, il rosso vanta una tradizione antichissima di assoluto prestigio nella gerarchia dei colori. Assieme al nero è sempre stato considerato un contrario del bianco: rispetto alla contrapposizione luce/oscurità della coppia bianco/nero, il contrasto bianco/rosso assumeva un significato assai prossimo a quello di colorato/non colorato, particolarmente nell’antica Roma dove spesso ruber e coloratus venivano impiegati come sinonimi e dove gli abiti degli uomini adulti venivano tinti con una gamma estremamente ampia di toni rossi.

VIOLETTO
Il colore risultante dalla mescolanza in parti uguali di rosso e di blu è il violetto.

Tra Blu e Rosso
Ai vari azzurri si aggiunge il tornasole, in latino fllium, estratto dalla pianta detta "morella"identificata con la Chrozophora tinctoria, originaria della Francia meridionale e chiamata Maurelle in Provenza. Il nome latino fllium può derivare dall'abitudine di conservarlo impregnandone dei pezzi di stoffa, che venivano poi collocati tra le pagine (folia) di libri; tornasole invece deriva da torna-ad-solem, "volgiti verso il sole", una caratteristica della pianta da cui si ricava la tintura.
Alcuni pittori fanno uso della tintura porpora estratta dal lichene chiamato Oricello (Roccella tinctoria) mentre il rosso di buccino, purpureo, estratto da un gasteropode originario dalle coste dell'Inghilterra e della Francia, era usato per colorare le pergamene.
La maggior parte dei porpora delle pitture su tavola è tuttavia ottenuta usando un blu, come l'azzurrite, assieme a una lacca rossa; pare che i pittori preferiscano i rossi purpurei offerti dalla lacca cremisi al delicato colore violetto degli estratti organici.

ROSSO

I pittori fanno largo uso di lacche-pigmento rosse ottenute da tinture. (ad esempio la lacca cremisi chermes era derivata da insetti molto diffusa e quelle a base di gommalacca) .
Cominciano ora ad apparire altre due tinture rosse: la robbia e la cocciniglia dalla. La robbia è estratta dalla radice della Rubia tinctorum
La lacca cremisi, estratta dalla cocciniglia, è anch'essa molto costosa. Si ricavava dai parassiti di una erbacea perenne, lo Scleranthus.
La sinopis di Plinio, un ocra rosso spento proveniente da Sinope sul Mar Nero, dà luogo al termine sinopia, che poteva valere sia per rosso che per verde.
Il rosso detto “Minium” o “Cerussa Usta” è ricavato dal minerale di piombo e viene ampiamente utilizzato nella realizzazione delle pitture su pergamena legate all’illustrazione di manoscritti. Già in uso in età classica è molto apprezzato anche ai giorni nostri.

Oro
La preziosità e la lucentezza del materiale, almeno per quanto riguarda la pittura su tavola, si manifesta soprattutto nei fondi d’oro: sullo strato iniziale di bolo rosso, colore che esaltava la calda rifrazione dell’oro, vengono applicate le foglie metalliche ridotte allo spessore di un velo, in modo da formare una superficie di ricca purezza astratta, luminosissima.
L'unico colore che gli alchimisti non possono creare con i loro alambicchi è quello che più cercano: l'oro.
Quale che sia il prezzo dell'oltremare o del vermiglione, l'oro ha in sè antiche associazioni che rendono il suo valore trascendentale.
Esso è sinonimo di regalità, offrirlo a Dio, nell'arte sacra, è il modo migliore per dimostrare la propria devozione. Inoltre, a differenza dell'argento e di altri metalli, sembrà immune al passare del tempo: non perde il suo splendore.
Per l'artista l'oro è un colore a pieno titolo. Viene applicato alle tavole stuccate in lamine sottili, dette foglie. Gli artigiani (battiloro) fabbricano la foglia d'oro martellando delle monete, riducendole in lamine sottilissime.
Anche il minimo velo di umidità è sufficiente per far aderire queste foglie sottili praticamente a qualsiasi superficie. Albume, gomma, miele e succhi vegetali sono usati per applicare le foglie d'oro alle pergamene dei manoscritti; vengono chiamati"mordenti all'acqua", ovvero sostanze solubili in acqua che mordenzano (mordono o fissano) l'oro.
La foglia d'oro mordenzata si adatta a tutte le irregolarità della superficie sottostante, facendole diffondere la luce, quindi il risultato appare di un giallo opaco piuttosto piatto. Solo se la superficie viene lisciata (brunita), strofinandola con un oggetto duro, riacquista lo splendore riflettente del metallo; a questo scopo era spesso usata una pietra arrotondata oppure un dente. Brunire, significa letteralmente rendere bruno, poiché scurisce l'oro nelle parti in ombra, mentre rende più brillanti quelle in luce.
Ma alcuni fondi d'oro non vengono bruniti, intenzionalmente, fissando la scena dentro una tremula luce scintillante.
Non tutto quest'oro è steso in forma di foglia: veniva anche usato in polvere; ma essendo un metallo tenero e duttile, pestarlo nel mortaio tende più a fondere assieme le particelle che a frantumarle .
In ogni caso solo gli artigiani che hanno studiato la metallurgia alchemica sanno indurire l'oro e riuscire così a macinarlo.
La convinzione degli alchimisti che i metalli non siano che miscele di ingredienti di base sempre uguali è suffragata dall'osservazione che l'oro può essere amalgamato al mercurio.
Questo amalgama è una pasta malleabile, avvolta in un pezzo di tela e strizzata per togliere il mercurio in eccesso, diventa dura e fragile, adatta a essere macinata.
Col calore il mercurio vaporizza, lasciando oro in polvere, purché si faccia attenzione a non raggiungere una temperatura tale da provocare la fusione dei granelli d'oro.
Una tecnica alternativa è battere l'oro fino a ottenerne un foglio sottilissimo, che veniva poi macinato con miele o sale per evitare che le particelle d'oro si saldassero assieme.

GIALLI

Si può trarre dall’orpimento (minerale).
I pittori odierni adoperano, seguendo varie ricette, anche pigmenti gialli ricavati da ossidi di piombo e stagno.
L'alchimia fornisce una lacca gialla che si chiama «arzica» estratta dalla guaderella, Reseda luteola detta anche "erba dei tintori", viene coltivata per la sua tintura gialla ed è particolarmente apprezzata per tingere la seta.
La lacca gialla ottenuta dalla guaderella può essere brillante e abbastanza coprente, un buon sostituto dell'orpimento.
La coppia cromatica giallo/verde distingue anche i folli, i buffoni, e, quanto più il giallo tendeva al verde, tanto più era considerato negativo.
Di giallo o di giallo-verdastro sono connotati i traditori.
Il giallo, specialmente nel suo più alto grado di saturazione e luminosità, può assumere però anche una valenza positiva o, quantomeno, neutra.
Più significativa per il miniaturista è la lacca gialla ottenuta dalla pianta dello zafferano(Crocus sativus) e da altri crochi; mescolato con albume, lo zafferano produce un giallo intenso puro e trasparente; miscelato con l'azzurrite forniva un verde vibrante.

VERDE
Il verderame è un prodotto dell’alchimia araba.
Gli antichi Greci l'usarono di sicµro e di certo non furono i primi.
Il verderame è un pigmento popolare ma imprevedibile: gli acidi organici usati per prepararlo, in alcuni casi intaccano la pergamena o la carta su cui è applicato, formando buchi netti. Inoltre, alcuni pigmenti tendono a deteriorarsi se accostati al verderame. Questi difetti motivano la ricerca di verdi alternativi tra cui i principali sono due colori organici detti "verde linfa"e "verde iris".
Il primo proviene dal succo delle bacche di ramno, che è abbastanza denso da essere steso direttamente; con l'aggiunta di un po' di gomma, è ottimo per l'acquerello.
Il verde iris, ottenuto dal succo di queste piante, mescolato con acqua e forse con un addensante come l'allume, viene usato per miniare manoscritti.

BIANCO
Il bianco è percepito come un’assenza di colore e, come tale, è spesso associato alla morte e al lutto: bianchi sono i sudari e le bende che avvolgono i defunti. Conseguentemente diventa anche il colore di chi si appresta a mutare condizione, a transitare fisicamente o spiritualmente da una fase all’altra della vita.
Bianco quindi è anche il colore degli angeli.

Nero

Il nero è associato all'umiltà e di conseguenza alla pazienza, temperanza nel dolore, morte, penitenza e infine alla disperazione. Un percorso che ha al suo estremo il male assoluto, il diavolo.



°°°Shadow°°°
Custode del Sapere
Amministra Discussione: | Riapri | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 04:00. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com